Hamburger & patatine Fallimenti alimentari

L’ultima trovata di marketing della catena di fast food più famosa al mondo costringe a una riflessione da parte di tutti coloro che comunicano, a vari livelli, il cibo. Il linguaggio è giusto o va rimodellato?

McDonald’s preso d’assalto da migliaia di adolescenti in Italia. Negli scorsi giorni la notizia è stata questa: ore e ore di fila in tutto il territorio, isole comprese, per la nuova campagna promozionale del fast food più famoso del mondo. È quasi Natale, siamo tutti più buoni e lo sono anche le grandi catene di cibo commerciale. E quindi è iniziata la promozione, che andrà avanti fino al 25 dicembre, come un “golosissimo” calendario dell’avvento travestito da hamburger. Il 30 novembre la catena è partita con un Crispy Mc Bacon large, a tre euro al posto dei canonici dieci: un panino con ben due burger di manzo, bacon e cheddar, patatine fritte e l’immancabile bevanda. Insomma, il classico, ma raddoppiato: è Natale, lo abbiamo detto, e la generosità diventa un aspetto fondamentale. 

Probabilmente vi sarà capitato di imbattervi in uno dei tantissimi video postati sui social o raccolti dalle varie redazioni: quel che avete avuto di fronte saranno state file ordinate, ma lunghissime, o folle accalcate come se ne vedono solo nei film americani durante le vendite private di qualche marchio di lusso. Il delirio, non ci sono molte altre parole per definirlo. E sotto alcuni aspetti lo si capisce anche. Il panino con l’hamburger (quel panino con l’hamburger) è senza dubbio il comfort food per eccellenza per tanti. Lo è per parecchi adulti, figuriamoci se non lo è per orde di ragazzi festanti, in trepidante attesa di poter risparmiare qualche euro e godere del pasto più “buono del mondo”. 

Ora, nessuno vuole ergersi a giudice supremo del buono, etico e sano, ci mancherebbe altro. Ognuno di noi è libero di scegliere quante calorie introdurre, di quale tipo e quando. Mangiare è un atto privato, come ha detto anche Simona Argentieri in un libro dedicato a cibo e psicanalisi. «Mangiare è l’atto più antico e più intimo che si possa immaginare: qualcosa entra dentro di noi, si trasforma e ci trasforma; tanto che si può dire che l’esperienza della nutrizione è il fondamento ontologico dell’individuo». 

Ma, a prescindere da queste disquisizioni morali (o da boomer, potremmo dire), dal cercare di capire se sia corretto o no strapparsi i capelli per “quel panino”, qui urge un’altra riflessione. Un mea culpa, forse. Siamo tutti impegnati infatti a ragionare su quale sia lo stato dell’arte del mondo del cibo e della comunicazione che ruota intorno ad esso. Giornalisti, aziende, influencer: se ne parla tanto e spesso. Stiamo comunicando il cibo in modo giusto? Lo stiamo raccontando per quello che è? O ci stiamo facendo fagocitare da quell’assurdo e orrido hashtag che è il #foodporn?

Anche qui in redazione il tema è, ovviamente, quello più sentito. E il pubblico di riferimento dovrebbero essere le nuove generazioni. Linkiesta Gastronomika punta infatti tanto sui giovani, con il Festival, con gli eventi, anche, se vogliamo, con la comunicazione più istituzionale e con il linguaggio. Lo facciamo noi e lo fanno anche le altre testate editoriali: i giovani sono i lettori di oggi e di domani. È a loro che bisogna guardare. 

E allora che succede? Si cerca di raccontare ogni giorno i prodotti che hanno una storia, le persone che ci sono dietro quelle storie, i territori. Si prova a dare risposte sul perché andare a pranzo oggi costi spesso un patrimonio. Si cerca di fare divulgazione alle generazioni nuove. Si parla di inflazione, di costi del lavoro, di risorse umane ed economiche, di piccole produzioni artigianali e poi? E poi il vero successo se lo aggiudica un semplice panino, in versione doppia e a pochi euro, vero, ma pur sempre un panino (industriale). 

Sarà forse che in realtà stiamo sbagliando tutto? Che pensiamo di essere meravigliosamente in linea con il mondo contemporaneo, di essere dei fighi pazzeschi che parlano il linguaggio dei giovani e invece, magari, siamo totalmente disallineati su ciò che succede davvero e sui bisogni reali? Ci riempiamo tanto la bocca di bei termini, che possano raccontare il mondo dell’enogastronomia, pensando di fare un lavoro utile per gli altri, quando poi invece forse lo facciamo per noi, in un sistema di racconto e di industria egoriferiti, di cui alle persone interessa il giusto e a volte poco.

Stiamo percorrendo la strada corretta? Stiamo utilizzando un linguaggio opportuno? O forse stiamo facendo lo stesso errore che compie da anni la sinistra italiana, che ha perduto il consenso del popolo per il suo essere troppo snob e critica nei confronti di chi non fa strettamente parte del gruppo? Bisognerebbe mettersi una mano sul cuore e ripensare a tutto il modo di comunicare il cibo: stampa, aziende, creator. Forse solo così, un bel giorno, troveremo masse enormi di ragazzi in fila per acquistare un pezzo di formaggio di quella piccolissima e sconosciuta malga. 

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