Ci avete mai fatto caso? “A proposito” è una delle espressioni usate più a sproposito. Dal punto di vista sintattico può avere sia una funzione avverbiale, con il valore di “opportunamente”, “convenientemente”, “al momento giusto”, come nella frase “arrivi a proposito”; sia una funzione aggettivale, con il senso di “opportuno”, “adatto”, “conveniente”, per esempio nella frase “le tue osservazioni sono molto a proposito”.
Con una piccola aggiunta, la preposizione “di”, può però anche avere una funzione prepositiva e introdurre un complemento di argomento: «A proposito di quel che mi hai detto…». Ed è a una variante ellittica di questa funzione, sebbene deprivata della preposizione “di” e espressa di preferenza in forma esclamativa, che si può ricondurre una locuzione di incerto inquadramento sintattico, ma molto comune nelle conversazioni: “A proposito!” (col punto esclamativo), o a anche, meno squillantemente, “A proposito,” (con la virgola), a cui segue un argomento parzialmente nuovo richiamato per associazione di idee. Perché è per l’appunto “a proposito di” quanto detto o udito in precedenza che quell’argomento si è affacciato alla mente. Il nesso con qualche cosa che è già stato pronunciato (che, metaforicamente, è stato messo sul tavolo, è davanti agli occhi, presente all’attenzione dei conversanti) è del resto intrinseco al vocabolo stesso: “proposito”, dal sostantivo neutro latino propositum che è il participio passato di propono e tradotto alla lettera sta per «ciò che è posto davanti».
Senonché, proprio qui – come si dice – casca l’asino. Perché sovente, se non il più delle volte, tanto nel linguaggio orale quanto in quello scritto, quel nesso è del tutto assente, e la locuzione “a proposito”, sbocciata in bocca a uno degli interlocutori nel momento in cui prende la parola, è semplicemente un modo per interrompere un certo flusso logico e introdurre un argomento che c’entra poco o nulla con quanto precede: che cade, pertanto, a sproposito, e con ciò prosegue la conversazione indirizzandola su diversi binari. La formula più appropriata, in questi casi, potrebbe essere “cambiando discorso”, che pure viene utilizzata e denota una maggiore intenzionalità comunicativa; “a proposito” è meno studiata, è immediata, spontanea. Serve a segnalare lo stacco, a richiamare l’attenzione sul soggetto che interviene nella conversazione, ma in sé non ha alcun significato, è una pura formula riempitiva.
Prendete uno scambio dialogico come questo. Soggetto A: «Ho provato a chiamarlo, ma aveva il telefono staccato». Soggetto B: «Eh lo so, non è mai facile trovarlo». Soggetto A: «Boh, provo ancora domani, se no lascio perdere». Soggetto B: «A proposito, sei poi andato a vedere quel film?». Soggetto A: «Non ancora, invece sono andato a vedere…». Eccetera. Togliete l’espressione “a proposito” dall’interlocuzione di B (sull’abuso di “interlocuzione” cfr. “Linguaccia mia” dell’11 dicembre: qui – chiedo scusa – non ho trovato un sinonimo adatto) e il dialogo assumerà un tono surreale. Rimettetela e tutto tornerà a fluire: privo di nessi con quanto precede, “a proposito” stabilisce un legame alogico fondato sulla tacita intesa e accettazione dello scarto tematico da parte dei dialoganti. Media il passaggio e riempie un vuoto sonoro – infatti si presenta essenzialmente in un contesto comunicativo orale, o che ricalca l’oralità, come in una chat o nei dialoghi di un’opera narrativa, mentre sarebbe strano ritrovarla in un testo argomentativo.
Una analoga funzione riempitiva, ma senza distinzioni tra contesto orale e contesto scritto, svolgono altre locuzioni, strettamente imparentate tra di loro, che si ritrovano spesso nella narrazione di fatti sviluppati in certo arco temporale: “all’improvviso”, “improvvisamente”, “di colpo”, “d’un tratto” e così via. Anche queste sgorgano per una sorta di automatismo linguistico, ma a ben vedere non sempre hanno una ragion d’essere. A rigor di vocabolario, un evento che accade “all’improvviso” è qualche cosa di inatteso, non preannunciato, non premeditato, e quindi anche sorprendente: dov’è la sorpresa, per esempio, nel racconto di una persona – mettiamo: un investigatore privato – che sta sorvegliando i movimenti di una abitazione e “all’improvviso” vede la porta aprirsi? Oppure nella circostanza che “d’un tratto” a qualcuno squilla il cellulare?
Non denota invece alcun effetto di sorpresa un modo di dire che, nelle stesse situazioni, può trovarsi al posto di “improvvisamente” e simili: “a un certo punto”. Che cosa vuol dire che “a un certo punto” accade qualcosa? Tutti gli eventi accadono nel tempo, in un punto del tempo, altrimenti non accadrebbero, e quindi che bisogno c’è di dire “a un certo punto”? In realtà è anche questa una formula riempitiva, una delle tante di cui è intessuto il nostro universo linguistico. Così naturali e pervasive che neppure le avvertiamo come tali, né del resto sapremmo farne a meno. Ma ecco, improvvisamente mi ricordo che tra poco ho un impegno. A proposito, devo mandare il pezzo in redazione…