Una donna figlia del suo tempo, complessa, a volte criticabile e spesso non del tutto comprensibile, ma che di certo ha contribuito a liberare il suo genere come nessun altro prima di lei. Si parla qui di Coco Chanel (1883-1971), soggetto della mostra al Victoria and Albert Museum (V&A) di Londra Gabrielle Chanel: Fashion Manifesto, aperta sino al 25 febbraio 2024.
Realizzata in collaborazione con il brand stesso e con il Palais Galliera di Parigi – che aveva organizzato una mostra similare negli anni precedenti – il percorso espositivo si arricchisce, rispetto a quella del Galliera, di cento nuovi oggetti, compresi sessanta total look. Come nota a piè di pagina, va ammesso che ad oggi non è possibile prenotare una visita alla mostra: è sold out fino alla sua chiusura. Un intoppo a cui è possibile rimediare – divenendo member del V&A – attraverso un pagamento annuale che concede l’ingresso a ogni mostra presente nel museo.
«Gabrielle Chanel ha dedicato la sua lunga vita a creare, perfezionare e promuovere un nuovo tipo di eleganza basata sulla libertà di movimento, una posa naturale e causale, una sottile sofisticatezza che ha schivato tutte le stravaganze, uno stile senza tempo per un nuovo genere di donna. Questo è stato il suo manifesto, un’eredità che non è mai passata di moda», spiega Miren Arzalluz, direttrice del Palais Galliera. «Il suo successo non è stato basato solo sulla funzionalità, sul comfort e sulla raffinatezza del suo design, ma anche sulla sua abilità di afferrare e intercettare i bisogni e desideri delle donne del suo tempo».
E, in effetti, è facile comprendere attraverso le dieci sezioni nelle quali è divisa la mostra, la rivoluzione non solo vestimentaria, ma anche sociale, della francese nata in povertà, cresciuta in orfanotrofio e poi divenuta amica di potenti e politici, amante di Lord (non si sposò mai) e, in alcune occasioni, persino fallimentare agente segreto. Da produttrice di cappelli per attrici e signore dell’alta società (Towards a new elegance) ai vestiti da sera che le mannequin indossavano sulla leggendaria scalinata di Rue Cambon 31, sede del suo atelier (A timeless allure, con i vestiti esposti su una scalinata in una stanza specchiata). Nel mezzo c’è una carriera e una vita vissuta sempre con il piede sull’acceleratore.
A guardare oggi i primi abiti realizzati da Gabrielle Chanel negli anni Venti, ci si stupisce per la loro modernità, per la silhouette svelta che sarebbe attuale anche oggi e che allora ha permesso alle donne di poter gareggiare – magari su un campo da tennis –, evitando le scomode palandrane alle quali si era abituate prima. E in effetti l’utilizzo del jersey (tessuto utilizzato precedentemente per la biancheria) sarà quello che le concederà di entrare nel guardaroba di molte signore dell’high society che si dovevano sentire rivoluzionarie nell’adottare quel nuovo look.
La sua ossessione rispetto ai tessili è rintracciata anche nella sezione The Emergence of Style, che si concentra sugli elementi chiave della sua silhouette e le collaborazioni con le fabbriche inglesi, per realizzare tessuti ad hoc per quel mercato (in questo contesto, diventa comprensibile la scelta di sfilare a Manchester, eldorado del tessile anglosassone e culla della rivoluzione industriale).
A stupire, è la scoperta che buona parte delle invenzioni stilistiche arrivate fino a noi sono nate durante la seconda parte della sua vita, quando tornò in scena dopo diversi anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, un po’ per desiderio di contribuire ancora alla storia del costume, un po’ perché, come recitano le indicazioni vicino alle sue opere dell’epoca, «Christian Dior sosteneva che un couturier di successo poteva essere solo uomo». Il completo Chanel descritto come «la più bella delle uniformi» da Vogue nel 1964 è di quell’epoca, così come la leggendaria borsa 2.55 (il cui nome in codice si deve appunto al mese e all’anno di nascita). Un discorso a parte vale per costume jewellery – quella che definiremmo oggi bigiotteria – e che Coco non si è mai vergognata di sfoggiare, già dagli anni Venti, utilizzando pietre dure e plastica per dar forma ai suoi sogni, prendendo spunto dall’Egitto dei Faraoni o dall’impero Romano (sezione Costume Jewellery).
Come da aspettative, un’intera sala è invece dedicata allo sviluppo del N°5, la fragranza trascesa a simbolo di divinità quando ad ammettere di utilizzarle per consegnarsi al letto fu Marilyn Monroe. «Cosa indosso per andare a dormire? Solo due gocce di Chanel N°5». Tra le assidue utilizzatrici famose c’era però anche la Regina Elisabetta: nel percorso c’è infatti la riproduzione di una nota proveniente da Buckingham Palace, nella quale la sovrana ringrazia un amico che le ha regalato la boccetta «conosci i miei desideri prima di me». E proprio il profumo divenne all’epoca della guerra quasi un bene di rifugio: in alcune foto d’epoca, si vedono i soldati americani che liberarono il paese durante la Seconda guerra mondiale, ordinatamente in fila con la loro camionetta – fuori da Rue Cambon – in attesa di poter comprare la boccetta dorata da riportare a casa a mogli, sorelle, amanti.
Proprio gli anni della guerra sono affrontati per la prima volta con tutte le produzioni a lei dedicate o prodotti per l’audio televisivo in qualche modo “approvati” dal brand. In quei casi, Chanel è sempre apparsa con la complicità della maison, come un santino privo di asperità, il cui percorso da orfana a oracolo dello stile era l’unica traiettoria possibile, senza deviazioni alcune. Se è infatti noto che Chanel aveva all’epoca una relazione con un ufficiale tedesco e che era considerata dal governo nazista una fonte affidabile, mai prima d’ora si è parlato del suo ruolo attivo nella Seconda guerra mondiale.
La mostra ammette che non ci sono sicurezze storiche sulle reali ragioni che portarono Coco Chanel ad avvicinarsi al terzo Reich – forse il desiderio di liberare un nipote che era stato imprigionato e portato in Polonia, forse la casualità – ma agli atti risulta che fu interrogata dalle forze di polizia tedesche (con verbali annessi) e che addirittura, vista la sua vicinanza a Winston Churchill (che con lei andava assai d’accordo visto il comune amore per i weekend in campagna tra caccia e pesca) si pensò di affidarle una lettera da far recapitare al primo ministro inglese per negoziare i termini della resa.
L’operazione non andò mai in porto ma il suo apporto alla storia non diminuisce di valore, soprattutto al netto della discussione attuale sulla mancanza di donne designer nei grandi conglomerati nella moda. La sua vita e la sua opera sono la dimostrazione migliore di come l’intuito femminile applicato sia capace di comprendere al meglio le necessità del suo genere – in quanto sono le stesse che ha provato lei – e risolverle con un guardaroba rivoluzionario nella sua semplicità.