Ci sarebbero molte cose da dire su questo lamento ricorrente intorno alla povera Giorgia Meloni, che sarebbe tanto brava, lei, e chissà che grandi cose potrebbe fare, se solo avesse una classe dirigente all’altezza, se non fosse circondata da tutti quegli improbabili figuri che ogni giorno finiscono sui giornali con qualche sparata (più spesso in senso figurato, per fortuna, ma di recente, com’è noto, anche in senso stretto).
Lo si dice sempre, di tutti: è uno dei tanti alibi dietro cui si nascondono i leader, ma soprattutto i loro corifei più furbi (lo si diceva persino di Benito Mussolini, tanto per fare un esempio a caso). Qualunque cosa vada storta non è mai colpa del capo, ma sempre di quelli che gli stanno intorno.
In fondo, è la trasposizione in politica di un vecchio riflesso mammista: il nostro scarrafone è sempre bellissimo e bravissimo, e se anche ha ammazzato qualcuno non è mai colpa sua. Al massimo, si sa, sono le cattive compagnie. È una storia talmente vecchia che già diversi anni fa, stanco di sentire sempre le stesse scemenze, ne avevo ricavato una piccola massima, per troncare la discussione sul nascere: se il leader si circonda delle persone sbagliate, è il leader sbagliato.
Nel caso di Meloni, però, questo vecchissimo tic giustificazionista risulta ancora più assurdo, perché a dirla tutta, seguendo le notizie di cronaca, dovremmo concluderne che, poverina, lei sarebbe bravissima, se non fosse per il cognato, per il padre di sua figlia, per le persone che ha scelto come ministri, viceministri o sottosegretari (tra cui il suddetto cognato), per quelle che ha messo alla guida del partito (tra le quali la sorella), per non parlare di quello che ha indicato per la guida del Senato (suo padrino politico e cofondatore, con lei, di Fratelli d’Italia). Quando si dice: essere perseguitati dalla sfortuna.
Il ritornello sulla mancanza di una classe dirigente all’altezza è peraltro in netto contrasto con un’altra bufala propagandistica che pure giornali e talk show continuano a bersi con gusto e a ripetere senza fare una piega, e cioè l’idea che proprio Fratelli d’Italia sarebbe uno degli ultimi partiti veri, con una lunga storia, una tradizione se non proprio nobile perlomeno antica, un radicamento reale nella società.
Noiosamente, tocca dunque ricordare che Fratelli d’Italia non nasce da Alleanza nazionale e tanto meno dal Movimento sociale, ma da una scissione del Popolo delle libertà, il più plastificato dei partiti di plastica, la cui fondazione fu annunciata da Silvio Berlusconi dal predellino di un’automobile, in piazza San Babila, il 18 novembre 2007.
È vero che Fratelli d’Italia, all’atto di nascita, ben cinque anni più tardi – e dopo tre anni (da loro) felicemente passati al governo, con Meloni ministra – scelse di mettere la vecchia fiamma nel simbolo, e di caratterizzarsi per posizioni ben più radicali e illiberali di quelle cui era approdata An, prima di confluire, obtorto collo, nel Pdl.
Resta il fatto che sin da allora, se stiamo alle concrete posizioni politiche, ma anche alle forme e persino al lessico impiegato, Fratelli d’Italia non ha fatto altro che inseguire il modello populista inaugurato in Italia dal Movimento 5 stelle e già ricopiato pari pari dalla Lega di Matteo Salvini. Partiti e movimenti tutti e tre – al di là dei successivi compromessi, annacquamenti e giravolte – nati orgogliosamente no euro, no vax, sovranisti e filoputiniani. Ma soprattutto, ovviamente, populisti, cioè per definizione ostili all’idea stessa di classe dirigente (espressione peraltro discutibilissima, ma ora non è il caso di farla troppo complicata).
Lo stesso Movimento 5 stelle, tuttavia, non è nato dal nulla. Al contrario. Almeno dai primi anni novanta, sull’onda di Mani pulite, da destra e da sinistra, dai grandi giornali e dai grandi intellettuali è venuta una campagna martellante contro i partiti e i professionisti della politica. Il movimento fondato da Beppe Grillo nel 2007 non era altro che la realizzazione pratica più coerente della distopia immaginata da tanti illustri giornalisti e pensatori (in particolare nel gruppo Repubblica) su un paese governato direttamente dalla «società civile». Una visione del mondo che proprio in quel 2007 sfociava (questa volta sul Corriere della sera) nella campagna contro «la casta».
Dopo avere distrutto, delegittimato e demonizzato le uniche organizzazioni che per cinquant’anni, con tutti i loro difetti, avevano provveduto a formare quel poco che avevamo di classe dirigente (se proprio vogliamo, assieme a Chiesa, Banca d’Italia e Confindustria, ma insomma, ci siamo capiti); dopo avere spianato la strada ai non-partiti populisti di oggi ed esserci beati di questa grande palingenesi che abbiamo pomposamente chiamato Seconda Repubblica; dopo avere usato per anni la parola «casta» come sinonimo di «partiti», avere sfasciato tutto quello che potevamo sfasciare ed esserci fatti pure i complimenti da soli, con che faccia possiamo ora prendere la posa dolente e lamentare il fatto che, signora mia, in Italia non abbiamo più una classe dirigente all’altezza?
Ma soprattutto: all’altezza di chi?