Inscì a veghenIl genio di Jannacci, gli aneddoti di Paolo Rossi e la monumentale pigrizia di Abatantuono

Un documentario ricco di definizioni fulminanti, molle autoironia e racconti di grandi talenti che fanno venire una nostalgia pazza per il Novecento

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«Enzo era anche difficile da frequentare, era anche faticoso, per chi non capisce: se tu capisci, sai cosa prendere dalle persone e sai cosa evitare». Lo dice Diego Abatantuono al sesto minuto di “Enzo Jannacci: Vengo anch’io”, ed è in quel momento che io capisco due cose, che però vi dico dopo.

Prima devo dirvi che siamo in un periodo di sovrapproduzione documentaristica, e i documentari sono quasi tutti brutti. Poi non lo si dice mai, neanche noialtri che ne scriviamo lo diciamo, perché ci conosciamo tutti e non si può fare la rivoluzione, figuriamoci se si può fare la stroncatura.

Sono quasi tutti brutti per due ragioni abbastanza ovvie. Quando sono documentari compartecipati dal soggetto – non so: quello su Robbie Williams – per quell’effetto che Maurizio Costanzo sintetizzava in «stàmo a fa’ er santino». Quando sono documentari sulla prima generazione del pop, quella appunto di Jannacci, perché tutti quelli che avrebbero cose interessanti da dire sono o morti o ritirati a vita privata. Cosa me ne frega di cos’hanno da dire Tizia e Caio di Gaber o della Carrà: io su Gaber e la Carrà voglio sentire Mina, voglio sentire Boncompagni.

Anni fa lavorai per un’estate a un documentario sulla Vitti che non si fece mai. Erano tutti morti, avevamo una lista di intervistabili cortissima, che divenne ancora più corta: nel giro d’un anno, morirono i tre rimasti che valesse la pena sentire.

Il guaio d’essere stati giganti quando il mondo dello spettacolo era giovane è che a nessuno è venuto in mente di antologizzare l’allora presente per un futuro in cui il presente non sarebbe stato più interessante: i documentari sulla Carrà o sulla Vitti dovevi girarli quarant’anni fa.

Ecco: il documentario su Jannacci è bellissimo, nonostante Jannacci fosse del ’35, avesse tredici anni quando Modugno allargava le braccia e in Italia nasceva il pop, e lui e un sacco di suoi coevi siano ormai morti. È bellissimo, e lo capisco quando compare Abatantuono, e lo dico al sesto paragrafo avendo intanto fatto venire un coccolone al produttore che già si percepiva stroncato.

È una miracolosa eccezione, e il merito è di Abatantuono e di Paolo Rossi, che dicono delle cose stupende mettendo in minoranza la linea che in genere spadroneggia nei documentari: quella della gente che non ha niente d’interessante da dire ma siccome è famosa mica possiamo buttare l’intervista. (Certo che non faccio i nomi, certo che sono vile).

Poi certo, Jannacci fa anche molto da sé, in un’intervista che gli aveva fatto nel 2005 l’autore del documentario, Giorgio Verdelli, e nei materiali di repertorio. C’è un racconto alternato in due interviste, una sua e una di Gaber, di una volta che gli tirarono le monetine mentre suonavano sentendosi elegantissimi, che è un piccolo capolavoro (e la cosa migliore di Gaber che abbia visto di recente).

E ci sono definizioni fulminanti – «Boldi, l’unico vero comico morente» – e molle autoironia saputa – «Molte volte dico: Se capite tutto quello che dico avvisatemi, perché vuol dire che sono uscito dal personaggio» – e anche comprensioni dell’altrui talento, oltre che del proprio. «Ma io ho avuto Dario Fo, che dicevo signori, abbiamo un Molière in casa e facciam finta di non accorgercene» (sottotitolatori analfabeti di Netflix che scrivete «Molier», potete cortesemente tornare a scuola?).

Poiché era abbastanza professionista da non uscire dal personaggio, anche Guccini racconta che le sue telefonate erano una tragedia, non si capiva una parola e alla quarta volta ti vergognavi di chiedergli di ripetere. In un filmato d’un capodanno (credo) allo Zelig, lui e Abatantuono duettano su “Quelli che…”, e il «Quelli che l’ermetismo non lo cagano neanche, e quelli che sono l’ermetismo, che ci vuole almeno una settimana per capire cos’han detto» di Abatantuono è bello, ma il «Quelli che se lo ha detto Abatantuono fa ridere, eh» di Jannacci è il vero tocco da maestro.

Non fate come il pubblico di questo secolo che ha l’attenzione d’un pesce rosso, non fate come quella mia amica che si è lamentata perché nel documentario manca la parte su Jannacci dottore. Arrivate fino alla fine senza smanettare il telefono e andare a fare pipì e distrarvi (è poco più d’un’ora e mezza, un decimo dei documentari in trecento puntate cui ci ha abituato questo tempo slabbrato), e venite a ringraziarmi con comodo dopo aver ascoltato Abatantuono dire di quella volta che forse Jannacci gli fece un’iniezione di Campari Soda.

Ma forse il mio pezzetto preferito è Paolo Rossi che rievoca l’“Aspettando Godot” con Gaber e Jannacci, e lui e Felice Andreasi. Tutti che si aspettavano che Jannacci, solito cialtrone, non la sapesse a memoria, e invece alla prima lui, per dimostrare a Gaber che sapeva essere ligio, «La sapeva marcia». Finisce che il vuoto di memoria ce l’ha Andreasi, con tanto d’equivoco sul suggerimento. Finisce che Jannacci dice a Rossi «Comunque meglio un fiasco trionfale di un successo cordiale» (non c’è niente ch’io invidi quanto il talento per le frasi). Finisce che Jannacci dice a Gaber «Dai, Giorgino, vuoto di memoria, sempre meglio in teatro che in sala operatoria». Finisce che ti viene una nostalgia pazzesca del Novecento.

Il mio picco di nostalgia non è stato Jannacci con la Vitti, la tv in bianco e nero, Cochi e Renato, tutto ciò che non abbiamo vissuto e abbiamo mitizzato. Il mio picco di nostalgia è stato rivedere delle immagini d’un programma di Paolo Rossi e Piero Chiambretti, “Il laureato”, che probabilmente nessuno di voi ricorda (io sì perché, per una serie di coincidenze a cascata, quel programma è la ragione per cui oggi sono qui a intrattenervi, e non in qualche cucina a tirar la sfoglia).

Al netto del suo ruolo nella mia vita professionale, “Il laureato” rivisto adesso è uno degli ultimi bagliori della quantità spaventosa di talento che si riusciva a portare in tv allora, e del modo intelligente in cui si riusciva a utilizzarlo: a un certo punto c’è Ligabue che fa “Bisogna avere orecchio”, e persino Ligabue funziona, santiddio. Era il 1995: sembrano passati trecento anni. (Un amico che fa la tv, mentre commentavamo flagellandoci di nostalgia, ha detto: oggi chi ci metti, Achille Lauro?).

C’è un altro ricordo di Paolo Rossi meraviglioso, un’immagine degli anni Settanta, Gaber che sta cercando di scrivere una canzone, è lì che suda su un foglio, dice Rossi che l’unico altro che ha visto sudare così tanto all’inseguimento della parola perfetta è De André. E, mentre Gaber è lì che fatica, entra Jannacci con la sua sprezzatura e dice: «C’ho ‘sta frase in testa: la vita è un buco nero in fondo al tram». Gaber giustamente s’innervosisce, appallottola il foglio su cui si stava affaticando, lo butta, borbotta «Tanto non sa come andare avanti» (qui è dove andate a cercare su Google per scoprire poi cos’è diventato quel verso).

A un certo punto Abatantuono dice «inscì a veghen», e io mi ricordo perché da piccola mi tenevo lontana dai cultori di Jannacci: perché il milanese non l’ho mai imparato, perché non è solo che si mangiava le parole, era proprio una lingua straniera. Però mi rendo anche conto della seconda cosa importante che traggo da questo documentario.

Dicono che Abatantuono sia l’uomo che ha meno voglia di lavorare (ma più di fatturare) del mondo. Dicono che il povero autore di “Lol” cui è toccato proporgli delle cose si sia lanciato in idee di parodie dei supereroi, che lui l’abbia crudelmente lasciato parlare per minuti e minuti, mentre quello forse s’illudeva che avrebbe convinto l’uomo più pigro del mondo a truccarsi e imparruccarsi, e poi abbia detto: «Bello, eh. Ma io purtroppo sono molto adeso alla realtà».

Dico io che va bene il declino del mondo dello spettacolo, ma io mi vergogno di far parte d’una società in cui uno dei quattro attori intelligenti che esistono fa “Lol”. Date ad Abatantuono una striscia quotidiana di commento all’attualità.

Chiamatela “Inscì a veghen”, o come vi pare, e fategliela fare su Zoom così non s’incomoda a uscire di casa. Lo so: averci a che fare è faticoso, per chi non capisce. Ma ne vale la pena, e noi abbiamo bisogno d’un po’ di cascami del Novecento con cui consolarci, d’una tv con qualche frammento di talento. Tutto, anzi parecchio.

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