Più della lettura di Piccole donne al primo Natale in cui si era grandi abbastanza per i romanzi; più della visione di Via col vento su Rai 1 anche se era lungo e il giorno dopo c’era scuola; più di tutto, a unire le generazioni di ragazze italiane negli anni Ottanta fu Raffaella Carrà, Raffaella con Boncompagni (la coppia più bella del mondo anche quando non furono più coppia, specialmente quando non furono più coppia), Raffaella coi fagioli da contare.
Se una mattina stavi a casa da scuola, tua nonna, tua mamma, la tua tata, chiunque cucinasse teneva accesi i fagioli della Carrà. E tu li guardavi, giacché erano i beati anni in cui i bambini non avevano potere decisionale sull’intrattenimento. Li guardavi senza avere la più pallida idea di stare assistendo alla storia della televisione. Li guardavi, quel che è più grave, senza accorgerti di quanto fosse bella la Carrà.
La conversazione più diffusa, tra ultraquarantenni che si piccano di capire il mondo, è: ma come facevamo a non accorgercene? Com’è possibile che avesse quel primo piano pazzesco, abbacinante, perfetto, e a noi sembrasse una qualunque? Capissimo davvero il mondo, capiremmo che tra i suoi molti talenti c’era anche quello: illuderci d’essere una qualunque.
Non l’abbiamo capita, Raffaella, finché non siamo state delle signore che sapevano apprezzare i dettagli.
Il sussiego con cui salutava Eminem a Sanremo, lei una signora e lui un ragazzino coi pantaloni cascanti.
La pazienza con cui raccontava che, in tournée in Sudamerica, le toccava chiamare la cameriera e raccomandarsi: Boncompagni si lamentava che a casa non ci fosse il formaggio che gli piaceva.
I vestiti: son buone tutte a farsi mettere le mani addosso da Benigni in diretta e a scappare in maniera telegenica, ma fatelo voi con un abito in cui è impossibile muoversi.
L’abbiamo capita tardi, quando abbiamo scoperto che era riccia. Che è riccia. Ogni articolo che ho scritto a Carrà viva cominciava con «Raffaella Carrà è riccia», una rivelazione di cui non mi sono mai stancata, e non vedo ragione di smettere col tempo presente. È, sarà, sempre quella cosa lì: una con una tigna così pazzesca da avere il caschetto più famoso della storia, sebbene non fosse una liscia naturale. Questa cosa gli uomini – beati loro – non la capiscono, ma una che per decenni si spaccia per liscia può tutto: fare la storia della televisione, insegnarci le relazioni senza che le imparassimo mai (se avessimo dato retta a «E se ti lascia, lo sai che si fa? Trovi un altro più bello, che problemi non ha», non ci sarebbe servita mai nessuna rubrica di posta del cuore), stare di fianco a Mina senza sfigurare pur con molte gambe e molta voce in meno, morire di nascosto senza darci il tempo di compatirla (aveva compiuto da poco 78 anni, non si sapeva fosse malata), e inventare il tuca tuca.
È morta quattro mesi prima, per non farsi rompere i coglioni da noialtre smaniose di rievocazioni: a novembre saranno cinquant’anni dallo scandalo del tuca tuca, da quella puntata in cui il balletto venne considerato osceno, da quell’altra puntata in cui arrivò Alberto Sordi e lo impose alla Rai beghina. Se lo vuole l’ospite, se lo vuole il grande attore, allora la Carrà può ballarlo. (Oggi diremmo: lui lo accontentarono perché era un uomo. Ma mandare avanti un grande uomo per ottenere il risultato che vuoi non è forse un gesto da grande donna?)
Raffaella è stata la Carrà di tutti, e quindi tutti si sono appropriati del suo cadavere. Non solo chi aveva una foto con lei, chi un aneddoto, chi un articolo che scrisse su di lei chissà quando e magari è la giornata buona per fargli fare un po’ di clic. Anche chi ci teneva a dirci che la sua morte ci obbliga moralmente ad approvare la legge Zan (è o non è un’icona gay, la massima icona gay di questo povero paese); chi cominciava il proprio coccodrillo ricordandoci che era nata a Bologna (il coccodrillista dilettante ne è candidato a sindaco: è fisiologico che ogni morto famoso divenga propaganda); chi nella sua morte vede la propria, imminente: i vivi, tra quelli che fecero la tv con lei, percepiscono ogni decesso come un avvicinamento alla tomba. D’altra parte Boncompagni, che a parte lei stette quasi solo con ragazzine, diceva di non poter stare con le coetanee, «sono tutte morte».
In realtà era così già da un po’, Corrado era morto, Mina si era ritirata, la tv di quei tempi chiedevano di rievocarla sempre a lei. Raffaella stava ai varietà in bianco e nero come Enrico Vanzina sta al cinema degli anni Ottanta: «Siccome sono scomparsi quasi tutti, tocca quasi solo a me».
È il 1986. Raffaella è ospite al programma di David Letterman. Qui non ce ne accorgiamo, perché non è ancora la derelitta epoca in cui viviamo in attesa che l’egemonia americana ci degni d’una qualsiasi attenzione. La scopriremo nel secolo successivo, grazie a YouTube. Letterman la presenta come un incrocio tra Johnny Carson e Ed Sullivan, i due colossi della tv americana. Lei si siede, sorride (ma sorrideva già prima: sorrideva sempre, tra i suoi molti talenti c’era il sembrare una senza lato oscuro), e dice: «Sono due amabili signori, ma io sono una ragazza».