«Devi tenere conto che foruncoli, vesciche, irritazioni cutanee, vomito e reflusso sono tutti mandati direttamente da Dio a coloro i cui libri hanno avuto quattro edizioni in sei mesi. Il fuoco di sant’Antonio, posso assicurarti che è solo l’inizio; non lamentarti se la scabbia viene a farti visita, e lo scorbuto, e se ti si gonfiano i piedi e il corpo ti si riempie d’acqua e la rogna ti fa grattare… ti segnalo che non avrai alcuna empatia da parte mia». Centotré anni fa, una scrittrice (in questo caso Virginia Woolf) poteva dire a un amico scrittore (in questo caso Lytton Strachey) tutta la propria insofferenza per il di lui maggior successo.
Era prima che dividessimo il mondo in curva nostra e curva nemica, riservando l’ostilità alla seconda e i cuoricini alla prima. Meglio: era quando ostilità e simpatia erano categorie che si mescolavano più spesso. Quando buoni e cattivi erano ruoli da scuole elementari o da guerre mondiali, non da conversazioni tra intellettuali. Era quando non avevamo del tutto rinunciato a essere un po’ sofisticati, nelle nostre affiliazioni e nei nostri giudizi.
Forse è per una nostalgia di quelle possibilità lì – quella di trovare insopportabili i nostri amici, quella di sbeffeggiare i nostri accoliti, quella di non essere figurine senza problematica – che ho trovato così irresistibile Ti basta l’Atlantico?, il carteggio tra Woolf e Strachey appena pubblicato da Nottetempo.
Forse è per una nostalgia di quando si sceglieva di essere le più forti tra le donne fragili, e non le più fragili tra le donne forti, che mi sono messa a guardare il documentario Hbo su Tina Turner, in cui gente anziana su sfondi di boiserie racconta quella settimana del 1981 in cui TT raccontò a People – il principale, allora e oggi, settimanale popolare d’America: «uscire su People era l’equivalente di quel che oggi è diventare virali» – che la ragione per cui lei e Ike si erano lasciati era che lui la riempiva di botte.
«Ho vissuto una vita di morte, praticamente non esistevo, ma sono sopravvissuta», diceva Tina Turner, e aveva la fortuna di dirlo quarant’anni fa, quando nessuno titolava «resilienza», una sintesi da cui oggi non riuscirebbe a salvarsi.
Lo diceva perché le andava di renderlo noto, non «per aiutare le altre donne», una scusa che chissà se oggi riuscirebbe a scansare, oggi che «sono una di voi» è la principale interpretazione scenica delle multimilionarie, oggi che ogni casalinga di Voghera vuol sentirsi dire che anche l’attrice, la cantante, la conduttrice, hanno vissuto le sue stesse precise identiche sofferenze, anche a loro un fidanzato una volta ha detto «ambescìlle», anche loro hanno pianto nella loro limousine, e mica è stato meglio che piangere nel tinello di Voghera. Oggi che non c’è celebrità che non ottemperi, perché come si fa a non volere il successo commerciale, e il successo commerciale lo si ottiene solo simulando empatia: non vogliamo che tu, su quel palco, abbia il più clamoroso talento artistico; vogliamo che tu, giù da quel palco, abbia le nostre mediocri difficoltà.
Rubo, per noialtri mediocri le cui mediocri opere affollano questo tempo mediocre, quel che Strachey scriveva a Woolf descrivendo Henry James, intravisto nel Sussex: «Così consapevole e pensieroso e importante: era come un ammirevole commerciante che fa del suo meglio per soddisfarti, infinitamente autorevole ed educato». Darsi un tono è l’anima del commercio, ma pure prepararsi una biografia di sofferenze mica scherza.
Dodici anni dopo l’intervista a People, Tina Turner è al festival di Venezia a presentare il film tratto dalla sua autobiografia; il film con il quale diventa per il pubblico di tutto il mondo la moglie menata. Ma è Tina Turner, mica una sprovveduta che si presta a una vittimizzazione secondaria: arriva splendida splendente, saluta Gillo Pontecorvo, si siede in conferenza stampa e dice che lei il film non l’ha mica visto: «Non è che sia eccitatissima all’idea di ripensare al passato. La storia è stata scritta perché non dovessi più parlarne. Voglio stare lì seduta a guardare la violenza e la brutalità? No, ecco perché non l’ho visto».
In quel 1993 Tina Turner ha 54 anni. Non riesco a immaginare una popstar adulta di oggi che stia lì a sorridere ai fotografi per un film che si rifiuta di guardare.
Riesco a immaginarne una che se ne va indignata dalla première perché stanno monetizzando le sue sofferenze e abusano di lei come donna e vogliono ridurla a un passato in cui non si riconosce ed è uno scandalo e solidarizzate con me contro il patriarcato e la commercializzazione; oppure una che non si perda l’occasione di farsi fotografare mentre le scende la lacrimuccia alla première veneziana, mentre si commuove di sé stessa che ha sofferto proprio come tutte noi, facciamoci un selfie, avete comprato la barretta dietetica di cui sono testimonial?
Nel Woody Allen ancora non uscito (riapriranno i cinema, tornerà il Novecento), Rifkin’s Festival, Christoph Waltz, vestito con una specie di gigantesco preservativo nero, interpreta la morte. Gioca a scacchi col protagonista, poi se ne va, quello fa per trattenerlo, e Waltz lo rassicura: tornerò, e quando tornerò ti sembrerà troppo presto. Meno male che i cinema sono chiusi, sarebbero stati insopportabili i commenti «Noi abbiamo avuto centomila morti e tu scherzi su queste coseeee». Meno male che gli epistolari di Bloomsbury li leggono in pochi, altrimenti ci toccavano gli offesi perché il mio prozio ha tanto sofferto per la scabbia e tu non ti devi permettere.
Non è mai stata tra le mie preferite, Virginia Woolf, dalla quinta liceo a oggi. L’ho sempre trovata poco interessante, fino a queste lettere, e leggendole mi tornava in mente Elias Canetti su Pavese: cosa ci dice di uno scrittore il fatto che la sua opera migliore siano i suoi diari?
Recupero oggi – dall’epistolario, che è una versione esibizionista del diario – una vita di citazioni non fatte e auspici che, in tempo per la nostra senilità, torni il Novecento con tutto il suo pacchetto di saper ridere, saper archiviare, saper interpretare: «Vorrei fossimo dieci anni più giovani o vent’anni più vecchi e potessimo accontentarci del nostro brandy e di coltivare il nostro spirito».