In radio: «26 euro per una pasta in bianco, capito? Solo a Milano». (E giù risate, ndr).
Ma anche, leggendo su quello che noi ci ostiniamo a chiamare Twitter: «I bar che hanno deciso di dedicarsi al caffè acido che ha preso piede nel resto del mondo dovrebbero mettere un avviso, chiamarlo in un altro modo (anche nobilitante, se vogliono: “caffè VERO”) così noi consumatori possiamo sapere cosa andiamo a bere, senza sofferenze inutili. Oppure decidiamo che quello che abbiamo sempre bevuto lo chiamiamo solo “espresso” e “caffè” lo lasciamo ai neopuristi ma insomma veniamoci incontro».
Fiorello da un lato, Luca Sofri dall’altro. Che ci sia un problema culturale sul riconoscimento di quello che per noi “foodies” (o come diavolo vogliamo definirci) chiamiamo “alta cucina” mi pare evidente.
C’è una parte del mondo che pensa che siamo pazzi, una parte (piccola) del mondo che ci guarda con ammirazione, e una parte (minuscola) che sta cercando di capire da che parte stare.
Di qualunque di questi insiemi facciate parte, il nostro dovere professionale è farvi capire perché quelle che sembrano una mera provocazione, un esperimento per dimensionare il nostro ego, una trovata di marketing, o un puro esercizio di stile, sono in realtà visioni future, studi per un nuovo modo di alimentarci, passi avanti etici, e magari anche piccoli tasselli di un mondo in fase di cambiamento strutturale.
Dietro alle nuove tazzine di caffè c’è dell’acidità, certo, c’è una modalità di estrazione non convenzionale, vero, c’è un costo diverso, anche. Ma c’è – soprattutto – una nuova visione, c’è un’etica di produzione, c’è la scoperta di un passato colonialista agricolo e alimentare scardinata. C’è, insomma, una tazzina che racconta un mondo che cambia, e che ha bisogno della nostra attenzione. È, come sempre, un fattore culturale, con cui prima o poi dovremo confrontarci. Di sicuro, c’è un universo che ha bisogno di una nuova narrazione e che diventerà comune quando saremo in grado di spiegarlo bene.
E torniamo sempre al punto editoriale: perché Fiorello, per esempio, cita il titolo del Mattino per alimentare la polemica. E quel titolo è apertamente fuorviante, così come lo sono stati tutti quelli che hanno parlato della pasta “in bianco” di Alberto Quadrio. Perché fare del qualunquismo è utile al click, molto più che alla causa, che ai giornali che vogliono vendere non interessa. E tra l’altro: quanto la volete pagare una pasta – qualunque essa sia – in un hotel cinque stelle lusso in mezzo al quadrilatero della moda, mantecata al tavolo apposta per voi da uno chef affermato? Perché ad analizzarla bene, quella proprio pasta in bianco non è: ma è un esercizio di creatività, di rottura degli schemi, di cambio di prospettiva, di tecnica e in ultima istanza, sì, anche di marketing.
Ma la banana di Cattelan forse non lo è? E in effetti il valore di quell’oggetto ha fatto gridare allo scandalo esattamente quanto quello della pasta in bianco. Così come il “lo faccio anch’io” che segue a ogni taglio di Fontana. E come nessuno di noi, prima di Fontana, avrebbe immaginato di farci vedere su una superficie bidimensionale la tridimensionalità “semplicemente” facendo un taglio su una tela, allo stesso modo nessuno di noi avrebbe saputo immaginare di cuocere una pasta di soli albumi senza olio, senza burro ma con un brodo ricavato facendo decantare dalle croste di parmigiano così che la parte solida e quella grassa e quella liquida si separino e mantecandola con la parte grassa che diventa quasi una panna.
È pasta in bianco? Sì, nel senso che è una pasta bianca condita con una salsa cremosa e bianca. Ha un senso gastronomico? Di sicuro sta portando innovazione, pensiero, tecnica in un universo che cresce e si sviluppa. Possiamo farla anche noi? Forse, impegnandoci moltissimo, studiando per apprendere la tecnica e spendendo ben più di 26 euro. Provare per credere.
Quando la raccontiamo dobbiamo classificarla come “pasta in bianco”? Forse no, perché la sviliremmo, rischiando l’effetto opposto (che in realtà abbiamo ottenuto, vedi Fiorello). Forse sì, perché la rendiamo comprensibile anche a chi quei ristoranti non frequenta, e ha bisogno di un riferimento facile e vicino. Se ci possiamo dare una colpa: se questo piatto è l’ultima tappa di un percorso culinario intrapreso da una generazione di chef che stanno cercando l’originalità assoluta staccandosi dai gusti, dalle persone, cercando di creare una tendenza che di fatto non ha (ancora) presa sulla massa, allora forse dovremmo interrogarci noi, innanzitutto, e poi provare a spiegarlo al meglio possibile, semplificando senza banalizzare.