Sempre più persone stanno diventando vegetariane o vegane nel tentativo di contribuire a combattere il cambiamento climatico. Ma una dieta senza carne è davvero migliore per il pianeta? La produzione del cibo che mangiamo è responsabile di oltre un terzo delle emissioni globali di gas serra, quindi ridurre le emissioni legate al cibo è fondamentale per limitare l’ulteriore riscaldamento globale. La domanda è: che cosa possiamo fare noi di concreto per contribuire a ridurre queste emissioni?
L’impronta di carbonio, conosciuta anche come bilancio di CO2 o bilancio di gas serra, indica quante emissioni di anidride carbonica sono causate direttamente e indirettamente da un’attività o sono generate durante le fasi di vita di un prodotto. Si può misurare l’impronta carbonica delle persone, delle organizzazioni, dei Paesi o del cibo – per citare solo alcuni esempi. Oltre all’anidride carbonica (CO2), altri gas serra come il metano o il monossido di azoto sono spesso inclusi nell’impronta di carbonio convertendoli in CO2 equivalenti.
La stessa CO2 entra nell’atmosfera terrestre principalmente attraverso la combustione di combustibili fossili come il carbone, il petrolio e il gas naturale, contribuendo così al riscaldamento dell’atmosfera terrestre. Questo a sua volta si riflette in cambiamenti climatici indesiderati, come l’aumento del livello del mare, la desertificazione o le inondazioni.
L’impronta di carbonio di un prodotto è la somma delle emissioni di gas serra derivanti dal suo utilizzo in un’applicazione definita e in relazione a un’unità d’uso definita. Il ciclo di vita di un prodotto comprende l’intera catena del valore: dalla fabbricazione e dal trasporto delle materie prime e dei prodotti intermedi, ma anche la sua produzione e la distribuzione, fino all’uso, al dopo uso e allo smaltimento. L’impronta di carbonio di un alimento dovrebbe quindi sommare tutta la CO2 associata a quell’alimento: l’impronta è quindi maggiore per l’agricoltura intensiva, se un prodotto prevede lunghe vie di trasporto, ma anche un lungo stoccaggio (con raffreddamento o riscaldamento) o una lavorazione ad alto impatto energetico.
Nella più grande meta-analisi dei sistemi alimentari globali mai realizzata fino ad oggi, pubblicata su Science da Joseph Poore e Thomas Nemecek (2018), gli autori hanno esaminato i dati di oltre 38.000 aziende agricole commerciali in 119 Paesi. E questo è ciò che hanno dimostrato.
Il maggior potenziale di risparmio in termini di CO2 legato alla dieta si trova senza dubbio nella carne e nei prodotti lattiero-caseari. Le diete a base vegetale causano molto meno gas nocivi per il clima: soprattutto l’agnello e il manzo, così come il burro, sono più dannosi per il clima, mentre il maiale e il pollame se la cavano meglio in termini di impatto.
Gli alimenti a base vegetale hanno invece un impatto minore sul bilancio di CO2: un chilo di pomodori causa solo 340 g di CO2-eq, un chilo di patate solo 200 g. I prodotti lavorati, naturalmente, impattano di più: il pane arriva a 770 g, la pasta arriva a 940 g.
Ma è vero che mangiare locale ci aiuta a inquinare meno? Non sempre e non per forza. Dipende molto di più da cosa scegliamo di consumare, anche in base a dove siamo. In una nazione con un clima più fresco, dove i pomodori possono essere coltivati solo utilizzando serre riscaldate, i pomodori locali avranno in genere un’impronta di carbonio più elevata rispetto a quelli spediti da un Paese più caldo dove non è necessario il riscaldamento.
È stato dimostrato che le emissioni derivanti dalle miglia alimentari – la distanza che il cibo deve essere trasportato da dove viene prodotto a dove viene consumato, misurata in chilometri percorsi moltiplicati per il tonnellaggio – sono minuscole rispetto a quelle derivanti dalla coltivazione di quel cibo.
Le emissioni possono essere calcolate in base al modo in cui il cibo viene trasportato, ad esempio via aerea o via mare. Uno studio sulle diete statunitensi condotto da ricercatori della Carnegie Mellon University in Pennsylvania ha concluso che il trasporto di cibo dalle fattorie ai negozi produce solo il 4 per cento delle emissioni legate al cibo, mentre uno studio del 2018 sulle diete europee lo stima al 6 per cento .
Ciò significa che se vogliamo ridurre l’impronta di carbonio della nostra dieta, dovremmo concentrarci sull’acquisto di alimenti con un’impronta di carbonio complessiva inferiore piuttosto che su quelli che non devono viaggiare lontano. E questo significa sostanzialmente mangiare meno carne e latticini.
Ma anche quando scegliamo i vegetali, dobbiamo prestare attenzione a come li scegliamo: quando un alimento a base vegetale viene ulteriormente elaborato, infatti, la sua impronta di carbonio peggiora improvvisamente. Le patate fritte, per esempio, producono 3,8 kg di CO2-eq / kg, che è peggio della carne di pollo. La conservazione in scatola delle verdure fresche peggiora la loro impronta di CO2 di tre volte, da 150 g a 500 g CO2-eq / kg (anche se questo è ancora un valore molto buono). La situazione è simile con il congelamento: se è coinvolto, 1 kg di verdure causa 415 g CO2-eq.
Se possiamo dire – in generale – che un cibo vegetale, fresco e locale, è l’ideale, non è sempre vero. Anche lo stesso alimento, in momenti diversi del suo ciclo di “vita”, può cambiare radicalmente la sua impronta carbonica. Arriviamo addirittura a dei veri e propri paradossi, come ci dimostra l’esempio delle mele. Se sono raccolte nella nostra zona, quando arrivano dalle piantagioni regionali ai supermercati o ai mercati settimanali, la loro impronta di carbonio è normale. Ma non rimane così: le mele che non vengono vendute direttamente dopo la raccolta vengono conservate in celle frigorifere fino a nuovo ordine e a volte rimangono lì per molti mesi. In questo modo, l’impatto delle mele domestiche peggiora continuamente dopo il periodo del raccolto fino a quando è più conveniente importare mele dal altri Paesi per avere un impatto inferiore.
Comprare biologico è sempre meglio per il clima? Purtroppo anche questo assunto non è sempre vero. La carne biologica in particolare tende ad avere un’impronta di carbonio peggiore della carne proveniente da allevamenti convenzionali. La logica di questa tesi ha senso: che gli animali allevati in modo biologico vivono più a lungo, emettono quindi più gas, e consumano più risorse come il mangime o l’elettricità. Nel caso della carne di manzo, c’è anche il fatto che la carne biologica di solito non proviene da ex mucche da latte, ma da animali maschi che sono allevati specificamente per la produzione di carne. La CO2 loro assegnata non è quindi distribuita tra diversi prodotti, latte e carne, a differenza del caso delle vacche da latte macellate, ma è attribuita solo alla carne. Comprare biologico è ancora raccomandato, ma non è necessariamente meglio per il clima.
C’è un ultimo tassello per migliorare il nostro impatto ambientale con il cibo, e passa dallo spreco. Qualsiasi cibo che finisce nella spazzatura invece che nello stomaco ha inquinato inutilmente il clima. Essere sostenibili significa anche affrontare con il viaggio per fare la spesa con intelligenza e saper gestire l’acquisto e lo stoccaggio dei prodotti. È ovviamente sconsigliato comprare enormi quantità di cibo in anticipo e conservarlo a lungo in frigoriferi e congelatori extra in cantina o in garage, perché questo aumenta inutilmente il consumo di energia. È importante trovare il giusto equilibrio tra comprare all’ingrosso e consumare in modo tempestivo.
Mangiando meglio contribuiremmo dunque in maniera significativa alla tutela dell’ambiente? Sì, anche se faremmo comunque meglio a rinunciare a volare. Secondo i calcoli dell’International Council on clean Transportation, saltare un volo di andata e ritorno in una classe economica relativamente efficiente in termini di consumo di carburante potrebbe ridurre il nostro carico di gas serra tanto quanto non mangiare carne per un anno. Se volassimo in business o in prima classe – in media tra 2,6 e 4,3 volte più emissioni di CO2 rispetto alla classe economy – anche i viaggi brevi sarebbero peggiori per il clima rispetto al consumo di carne.