Non solo aperitivoI lupini sfidano la soia nel mercato mondiale delle proteine vegetali

Le coltivazioni sono più sostenibili, adattabili al clima umido e freddo e richiedono meno acqua. La quota europea della produzione globale è cresciuta dal 17 per cento del 2011 al 28 per cento del 2021. In Italia, con il progetto Divinfood, si sta puntando a creare una nuova filiera che coinvolge anche il marchio Alce Nero. E a Lodi è stata registrata una nuova varietà dolce chiamata “Arsenio”, come il ladro Lupin

Wikimedia Commons

Un autore latino ha scritto che i soldati romani hanno conquistato la Britannia mangiando lupini. Magari avrà pure esagerato, ma basta questo per avere un’idea delle grandi proprietà nutrizionali del legume che in Portogallo chiamano «frutto di mare dei poveri». E in effetti, dai fasti dell’impero, i lupini sono diventati poi nutrimento per le fasce della popolazione meno abbienti, grazie al prezzo basso a fronte di un alto apporto di proteine, in alternativa alla carne più costosa. Fino alla quasi totale scomparsa dalle nostre tavole sempre più ricche di bistecche e latticini. Fatta eccezione per alcune regioni del Centro Sud, dove i lupini in salamoia guadagnano la scena come snack negli aperitivi o solo durante le feste di Natale.

Ma ora che il prezzo della soia importata è aumentato e le monocolture del legume per animali più noto al mondo vengono additate come una delle cause della deforestazione globale, ci si è resi conto che questo modello non può funzionare ancora a lungo. Ed ecco che da qualche anno si è tornati a guardare ai lupini come potenziale concorrente della soia tra le proteine vegetali sia da destinare al nutrimento per gli animali, ma anche nei preparati per vegetariani e vegani.

E il mercato si sta popolando, anche in Italia, di nuove aziende e startup che propongono dall’hummus di lupini agli affettati, dai formaggi di lupini alle polveri proteiche da aggiungere a pane e pasta.

Con il vantaggio che le coltivazioni di lupini, rispetto a quelle della soia, sono più sostenibili, richiedono meno acqua e meno pesticidi. E mentre i semi di soia preferiscono i climi caldi, i lupini possono crescere anche in ambienti freddi e umidi. Senza dover ricorrere per forza all’importazione. Non solo. Il lupino è una pianta che si può seminare in autunno o anche nel tardo inverno, utilizzando le piogge senza bisogno di essere irrigata. Al contrario della soia che viene coltivata d’estate e ha bisogno di molta acqua. Non è un caso che oggi il più grande interesse verso queste colture arriva proprio dal Nord Europa, dall’Olanda alla Germania.

Nel 2022, la produzione globale di lupini ha superato le 1,6 milioni di tonnellate (dati Fao), in crescita del 13,8 per cento in un anno, con l’Australia in testa tra i Paesi produttori, occupando da sola oltre la metà del mercato mondiale. Seguita a lunga distanza da Polonia e Russia. La quota europea della produzione globale è cresciuta dal 17 per cento del 2011 al 28 per cento del 2021. E se i semi di soia vengono commercializzati a circa 500-600 dollari la tonnellata, i lupini costano più o meno il 70 per cento in meno.

Oggi, per nutrire gli animali destinati al consumo di carne e latticini, gli allevatori europei ricorrono alla soia importata dall’America Latina, Brasile e Argentina in testa. Secondo una ricerca del Wwf, un cittadino europeo consuma in media circa 60 chili di soia l’anno, le cui coltivazioni prendono però il posto di foreste, savane e praterie in Sud America. Nel 2022 l’Ue ha approvato una nuova normativa che vieta l’ingresso nel mercato europeo ai prodotti agricoli provenienti da terreni deforestati. Mentre lo scorso aprile l’Europarlamento ha approvato una legge che vieta l’importazione di prodotti che causano deforestazione. Ma l’applicazione del divieto è stata rinviata al 2025.

Nel corso degli anni, il basso prezzo dei lupini e le politiche fiscali europee a favore della soia importata hanno scoraggiato la coltivazione locale. L’Italia oggi occupa tra le ultime posizioni della classifica mondiale con 950 tonnellate di lupini prodotti nel 2022, che sono comunque 200 in più rispetto all’anno prima. E dai quasi 40mila ettari coltivati a lupini dei primi anni Sessanta, le colture si sono ridotte a circa quattromila ettari, che sono comunque molto più di quanto viene registrato nei dati ufficiali Fao. Questo perché le coltivazioni vengono usate non sempre per raccogliere la granella, ma anche solo per rigenerare i terreni, come fertilizzante verde, grazie alla capacità di questi semi “fissare” l’azoto – il che significa che migliorano la fertilità del suolo riducendo la necessità di fertilizzanti sintetici.

In Europa, in attesa del divieto di vendita di prodotti che causano deforestazione, si è cominciato intanto a guardare al potenziale dei lupini. E ora con il progetto europeo Divinfood, messo in piedi per recuperare le «colture neglette e sottoutilizzate», tra Italia e Svizzera si è scelto di puntare proprio sullo sviluppo di una potenziale filiera della del lupino bianco, riunendo ricercatori, coltivatori e aziend attive nella trasformazione all’interno del Living Lab, uno spazio di interazione e collaborazione tra chi è interessato a scommettere su questo legume.

«Con questo progetto puntiamo a promuovere la produzione, la trasformazione e la commercializzazione del lupino per capire quale possa essere lo spazio di mercato con prodotti tradizionali o innovativi, sia su scala artigianale sia su una scala potenzialmente più industriale», spiega Luca Colombo, segretario della Firab, Fondazione italiana per la ricerca in agricoltura biologica, partner italiano del progetto Divinfood con il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) e l’Università di Pisa. Il Living Lab mira a creare prodotti che mantengano la percettibilità della materia prima, i cosiddetti classic vegan, diversi dai meat analogue che usano le polveri di legumi come fonte proteica per creare alimenti simili alla carne. «Vogliamo mantenere l’identità della materia prima e una riconoscibilità, senza usare il lupino come una fonte proteica qualsiasi», spiega Colombo.

Il che vuol dire creare da zero una nuova filiera di produzione, che al momento in Italia non esiste. «Dagli snack più semplici, quelli che a Roma si chiamano fusaglie, fino ai prodotti più innovativi», si augura Colombo. Molte delle aziende partecipanti al Living Lab sono piccole, spesso con con reti di distribuzione limitate e circuiti locali, collocate dalla Maremma toscana alle Marche fino al Lazio, dove si concentrano le coltivazioni. Ma nel Living Lab è entrata ora anche Alce Nero, grande marchio di alimenti biologici, interessato a studiare le potenzialità della produzione di alimenti a base di lupino, sperimentando nuovi prototipi di alimenti.

In rampa di lancio ci sarebbe un nuovo hamburger vegetale, laddove oggi i più comuni hamburger vegetali sono a base di soia o pisello. Con il Crea si sta studiando anche la possibilità di creare yogurt e formaggi a base di lupino, destinati ai vegani o a chi ha intolleranze al lattosio. Oltre alle farine da mischiare con quelle più classiche per produrre pane e biscotti ad alto contenuto proteico e a basso contenuto di carboidrati, oggi richiestissimi sugli scaffali dei supermercati. E si sta lavorando pure sul fronte dei fermentati.

Nei laboratori del Crea di Lodi, il team di ricerca guidato da Paolo Annicchiarico da quindici anni sta studiando il miglioramento genetico del lupino bianco, arrivando lo scorso anno a registrare la nuova varietà di lupino dolce “Arsenio”, dal nome del più noto ladro gentiluomo Arsenio Lupin.

Il problema dei lupini è però in alcuni casi il retrogusto amarognolo. Questi semi contengono infatti gli alcaloidi amari che, se ingeriti in grandi quantità, possono essere anche nocivi e che quindi devono essere rimossi. «Gli alcaloidi sono idrosolubili», spiega Annicchiarico, «quindi con l’acqua possono essere eliminati. Ma resta comunque un meccanismo complesso e costoso. Ecco perché noi abbiamo creato una nuova varietà a basso tenore di alcaloidi che si può mangiare senza essere messa in acqua».

Il laboratorio ha già sottoscritto un accordo con l’azienda di sementi francese Cérience, che si occuperà della commercializzazione della varietà “Arsenio” in Italia e in altri Paesi mediterranei. E intanto si va avanti «nella ricerca di altre varietà di lupino che hanno contenuti di alcaloidi ancora di più bassi», spiega lo scienziato.

La scorsa primavera il Living Lab ha promosso anche dei test con un gruppo di studenti di food design per capire come «svecchiare» l’immagine del povero lupino stipato nei secchi d’acqua dei mercati, rendendolo accattivante anche per i più giovani attenti a un’alimentazione più salutare e a basso contenuto di carboidrati oltre che nel popolo crescente dei vegetariani e vegani.

Sul percorso di riscatto del lupino, però, è sorto un ostacolo. Di recente è stato inserito nella lista dei potenziali allergeni. «Questo, da un punto di vista dello sviluppo industriale, è per certi aspetti  anche peggio della presenza degli alcaloidi», spiega Luca Colombo. «Essendo inserito nella lista degli allergeni, un’azienda alimentare che decide di produrre alimenti a base di lupini dovrà dichiarare nell’etichetta la possibile contaminazione. E questo all’industria alimentare di solito non piace. Magari si finisce per evitare di produrre un alimento a base di lupini per evitare di doverlo menzionare fra i possibili allergeni».

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