Fingersi morti a Capodanno è un buon viatico per risparmiarsi una serie di legnate sui denti, da chi ti costringe a fare un bilancio degli ultimi dodici mesi (sintomo di esistenze che scorrono a responsabilità limitata) fino alla gincana di ricordi e poi i morti, i vivi, le stagioni che cambiano e quel condominio di Odesa che mentre viene bombardato canta dai balconi l’inno ucraino. Tutto troppo difficile per dargli un’inquadratura emotiva credibile. E col tempo poi, quel rifugio di retorica che erano i social hanno cambiato pelle e non si trova più un «Antonio Gramsci che odia il capodanno» neanche a pagarlo oro ed è invece è un tutto un discettare dalle proprie vacanze di questione palestinese con la stessa autorevolezza e lucidità di un Mario Magnotta qualsiasi alle prese con una lavatrice.
Ma in mezzo a tutto questo finto fragore, i discorsi di fine anno dei capi di Stato ci raccontano della posta in gioco e del nostro ruolo in questa battaglia corpo a corpo per la nostra libertà e per la nostra felicità. Se a Pechino il dittatore cinese Xi Jinping, trova il tempo di minacciare Taiwan, ripetendo che la missione che attende la Cina è quella della riunificazione e di un nuovo imperialismo, a Mosca Vladimir Putin, con un messaggio alla nazione abbastanza stringato in cui non ha menzionato l’Ucraina, ha rassicurato che la Russia «non si tirerà indietro, perché non c’è forza che possa dividerci».
Due prospettive parallele quella russo-cinese che muovono i fili del vero progetto autocratico e l’anno in cui siamo appena entrati, ricco di scadenze elettorali decisive dalle elezioni europee del 9 giugno alle presidenziali americane di novembre, appare uno snodo cruciale per la definizione degli assetti pluriennali. Dovremmo metterci al riparo da tentativi di influenze esterni, alzando il livello di guardia anche nel nostro dibattito pubblico ma sopratutto le forze progressiste, liberali e popolari dovranno necessariamente comprendere, che la posta in gioco non è il piccolo cabotaggio ma la difesa orgogliosa della democrazia, dello Stato di diritto e delle istituzioni liberali.
Come ha sottolineato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la cifra stilistica dell’autocrazie è la violenza, la volontà di supremazia territoriale, è il terrorismo incarnato nella sua rappresentazione più fedele lo scorso 7 ottobre da Hamas e più il progetto europeo andrà verso il suo compimento e maggiormente le forze illiberali tenteranno di rovesciarlo imponendo nuovi temi, nuove modalità e nuove parole d’ordine. Ne è consapevole anche il presidente francese Emmanuel Macron che ha vergato il suo intervento di fine anno su questi temi sottolineando che occorrerà «affermare la forza delle nostre democrazie liberali o cedere alle menzogne che generano il caos».
Non basteranno due discorsi di fine anno che cercano di rovesciare il tavolo di Russia e Cina, non basteranno le buone intenzioni per comporre un’agenda politica diversa ma tra le urgenze c’è il prendere consapevolezza che a spaventarci non dovrebbe essere un ipotetico inferno, perché come scrisse Italo Calvino, «l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui» e lo vediamo in Ucraina, in Bielorussia, in Israele, in Iran, in Russia, nei campi di concentramento degli Uiguri in Cina, nella sistematica violazione dei diritti umani in Turchia e starebbe a quelle forze che hanno a cuore un futuro europeo forte e coeso «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Non saranno le buone intenzioni a salvarci, il simbolismo divenuto totem e finzione di una politica che non esiste più, ma la concretezza che scorre nelle parole pronunciate tra Roma e Parigi, per non scivolare tra un anno nella nostalgia di tutto quello che non abbiamo saputo difendere.