Nelle ultime settimane la guerra è tornata a essere improvvisamente più vicina al cuore dell’Europa. Le difficoltà della controffensiva ucraina hanno permesso all’esercito russo di guadagnare posizioni nell’est del Paese, e sono ripresi massicci i bombardamenti sulle grandi città. Vladimir Putin ostenta sicurezza, mentre gli aiuti di Bruxelles sono ancora bloccati da Viktor Orbán e quelli americani dal Congresso, con la prospettiva inquietante di una vittoria di Donald Trump alle elezioni e un disimpegno statunitense.
In questo scenario deprimente l’Europa pare non essere consapevole del rischio che bussa alle porte. Qualche giorno fa hanno destato scalpore i documenti delle forze armate tedesche e il rapporto dei servizi di intelligence estoni che rivelano come uno scontro diretto con la Russia sia possibile ed è più vicino di quanto immaginiamo. Il fatto che informazioni di questo tipo provochino sorpresa o stupore è sintomatico del fatto che l’opinione pubblica europea non ha la percezione del rischio e non è preparata a quello che potrebbe accadere.
Lo ricordava qualche giorno fa Fabian Hoffmann, ricercatore per l’Oslo Nuclear Project all’Università di Oslo: «Dal 2014 gli intellettuali russi discutono ampiamente e pubblicamente su come vincere una guerra contro la Nato. Dov’è il nostro dibattito?».
Questo discorso, si diceva, vale per gran parte dell’Europa, ma non per tutti. Non vale per quei Paesi che si trovano in prima linea dietro al fronte e che per ragioni storiche e geografiche hanno dovuto da sempre fare i conti con la Russia. Non vale, soprattutto, per la Polonia.
In caso di mobilitazione
Nei giorni scorsi il ministero della Difesa ha pubblicato le nuove linee guida in caso di mobilitazione generale o dello scoppio di una guerra. Le norme previste sono piuttosto restrittive. I richiamati avranno solo sei ore di tempo per presentarsi al loro comando. Chi non lo farà verrà punito con una reclusione non inferiore a tre anni. Pene ancora più severe per chi si sottrarrà permanentemente alla chiamata alle armi. Per loro gli anni di carcere non saranno meno di cinque.
Il fatto che questi accorgimenti siano stati introdotti a neanche un mese dal giuramento del nuovo governo confermano quanto la questione di essere pronti in caso di aggressione sia prioritaria. Nulla deve essere lasciato al caso, e d’altra parte che la Polonia si stia preparando da tempo a un eventuale scontro con Mosca non è una novità.
Non è un mistero che uno degli obiettivi di Varsavia sia quello di dotarsi del più grande esercito di terra d’Europa, con un totale di trecentomila effettivi, costituito da duecentocinquantamila professionisti e cinquantamila volontari, da aggiungere al contingente Nato di undicimilaseicento soldati.
Il capitolo della legge finanziaria – in fase di approvazione – dedicato alle spese per l’esercito tocca il quattro per cento del Pil, come promesso già dal precedente governo. Tra le altre cose è previsto un aumento di circa il venti per cento al salario di soldati professionisti e ufficiali. Gran parte dei fondi è destinato al riarmo, che, come noto, è imponente. Nell’ultimo anno e mezzo la Polonia ha firmato importanti accordi con Stati Uniti e Corea del Sud per l’acquisto di millequattrocento nuovi carri armati, quarantotto nuovi caccia da combattimento leggero FA-50 e 32 F-35, sistemi di difesa aerea, artiglieria pesante e lanciarazzi.
La questione della sicurezza nazionale sembra essere al momento l’unico punto di continuità tra il vecchio e il nuovo governo, e anche il presidente Andrzej Duda spesso ha richiamato all’importanza di questo concetto. Donald Tusk, il giorno in cui ha pronunciato il suo discorso programmatico ha dichiarato che è inammissibile sentir parlare di stanchezza nei confronti della guerra in Ucraina. Un messaggio diretto all’estero e a tutti quei paesi occidentali che stanno mostrando il fianco, ma anche all’opinione pubblica interna.
La guerra vista da Varsavia
Per la Polonia la guerra è infatti qualcosa di sempre vicino ma inafferrabile. La si può vedere e sentire nei volti e nei racconti di chi dalle bombe e dai soldati di Mosca è dovuto scappare e qui ha trovato rifugio. Persone che nel corso del tempo sono diventate vicini di casa, colleghi, amici.
Eppure la guerra è allo stesso tempo qualcosa che si tende a dimenticare, specialmente nelle città, dove la vita corre veloce, dove il benessere talvolta annacqua e offusca il ricordo della paura e delle emozioni dei primi mesi dopo l’invasione, quando i polacchi avevano accolto migliaia di ucraini nelle loro case, di quando loro stessi facevano la fila all’ufficio passaporti e cambiavano i soldi, di quando il suono di una semplice sirena faceva trasalire.
Gran parte di quel sentimento se ne è andato, sostituito da una nuova normalità dove le insegne in cirillico sono diventate cosa comune, dove una persona su cinque che incontri per strada parla una lingua diversa. Seppure il sostegno alla causa ucraina sia ancora molto alto tra la popolazione, in alcune frange minoritarie hanno cominciato ad emergere segni di insofferenza, cavalcati soprattutto dall’estrema destra di Konfederacja, e in misura minore durante l’ultima parte del suo mandato, anche da Diritto e Giustizia.
È accaduto per la questione della protesta degli agricoltori, che hanno reclamano lo stop delle importazioni di cereali dall’Ucraina, dopo che queste avevano invaso il mercato locale. È successo con la categoria degli autotrasportatori, che chiedono la fine della liberalizzazione delle licenze ai loro colleghi ucraini. Entrambe le categorie hanno dato vita negli ultimi mesi a un prolungato blocco ai valichi confinari che hanno messo in difficoltà le relazioni tra Varsavia e Kyjiv e sono diventate una priorità del governo di Donald Tusk. Missione parzialmente riuscita. Gli autotrasportatori hanno annunciato una sospensione della protesta fino al 1 marzo in attesa che il ministero delle Infrastrutture presenti delle proposte concrete rispetto alle loro istanze. In una mossa analoga gli agricoltori non protesteranno fino al 15 marzo.
Missili in casa
La Polonia è però anche quel Paese in cui la guerra è entrata, più di una volta, già materialmente in casa. È accaduto nella mattinata del 29 dicembre quando un missile è entrato nei cieli polacchi dal confine ucraino sorvolando il voivodato di Lublin per diverse decine di minuti, per poi riprendere la direzione da cui era venuto. Il pensiero è corso subito alla tragedia accaduta a Przewodów, quando il 15 novembre del 2022 un missile cadde nel terreni di un’impresa agricola in un villaggio subito al di qua del confine uccidendo due persone. Si tratta ad oggi delle uniche vittime del conflitto al di fuori dei paesi direttamente coinvolti. In quel caso la responsabilità venne identificata in un razzo della contraerea ucraina finito fuori controllo. Un caso sfortunato, si direbbe, che per qualche ora sembrò proiettare il mondo sull’orlo del terzo conflitto mondiale, ma che poi venne derubricato a incidente.
Molta meno risonanza ebbe il caso del missile caduto nella foresta a venti chilometri da Bydgoszcz, città di trecentoventimila abitanti nella Polonia settentrionale. Il fatto accadde solo su un mese più tardi, ma è emerso solo nella scorsa primavera quando i detriti dell’ordigno sono stati ritrovati da un escursionista a cavallo. Le autorità erano ovviamente a conoscenza di quello che era accaduto ma non erano riuscite a trovare i resti del missile e avevano insabbiato la vicenda. La distanza dai confini ucraini induce a pensare che difficilmente potesse essersi trattato di un incidente e questo spiega forse la reticenza dell’allora governo polacco a esporlo pubblicamente. Cosa sarebbe accaduto se un mese dopo i morti di Przewodów fosse stato appurato che i russi avevano sparato un missile nel cuore della Polonia?
Quanto accaduto a fine anno si inserisce in questo contesto. Convocato il gabinetto di sicurezza nazionale è stato appurato che il missile era stato sparato dai russi. Circostanza negata da Mosca, ma confermata dai paesi alleati che avevano identificato la traiettoria dell’oggetto volante. È possibile che si sia trattato di un test che il Cremlino ha voluto effettuare per mettere alla prova la capacità di reazione del nuovo governo polacco.
Questo tipo di prove di forza d’altra parte non sono una novità. In agosto due elicotteri dell’esercito bielorusso sorvolarono per diversi minuti il villaggio di Białowieża. Erano le settimane in cui diverse centinaia di miliziani della Wagner si erano collocati in Bielorussia dopo il fallito putsch di Yevgheny Prighozhin. Il clima era molto teso, il ministero della Difesa aveva riposizionato a sua volta più di diecimila soldati al confine, eppure anche all’epoca, quella del regime di Minsk era apparsa niente più che una scaramuccia.
La variabile che cambia il peso specifico di questo tipo di incidenti è quello che sta succedendo in Ucraina adesso e il contesto generale. Se quest’estate la situazione poteva essere considerata ancora piuttosto stabile, ora non lo è più, e diventa d’obbligo porsi la domanda su cosa potrebbe succedere se le cose dovessero andare davvero male. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky d’altra parte lo ha ribadito più volte, anche nei giorni scorsi a Davos: «Putin non si fermerà».