Europa o noLe resistenze della vecchia Polonia rischiano di paralizzare il nuovo governo Tusk

Il capo dello Stato Andrzej Duda difende le posizioni di sovranisti e conservatori, creando enormi difficoltà al nuovo primo ministro che aveva promesso di scardinare il sistema di potere costruito in otto anni da Diritto e Giustizia

AP/Lapresse

Donald Tusk lo aveva promesso prima delle elezioni: cento azioni da realizzare nei primi cento giorni di governo per rilanciare il Paese e soprattutto per scardinare il sistema di potere costruito in otto anni da Diritto e Giustizia. Un programma coraggioso che richiede un’azione decisa, ma che rischia di cadere nell’ingovernabilità. Il problema è che cento giorni sono troppo pochi e il conflitto tra il nuovo e il vecchio potere era inevitabile, specialmente considerando che al palazzo presidenziale siede – e lo farà fino al 2025 – Andrzej Duda, presidente solo formalmente super partes, che in questa fase storica sta incarnando il ruolo di baluardo della Polonia sovranista e conservatrice sconfitta alle urne.

I presupposti per lo scontro c’erano tutti. Il conflitto politico in Polonia dura ormai da anni, incarnato in una lotta sempre più personale tra il leader di Diritto e Giustizia, Jarosław Kaczyński, e quello di Coalizione Civica, Donald Tusk. La destra polacca porta avanti da anni la narrazione secondo cui Tusk agirebbe in nome e per conto della Germania, che manovrerebbe l’Unione europea per soggiogare la Polonia alla sua volontà. Insomma, Tusk sarebbe un agente tedesco, come dichiarato da Kaczynski in parlamento il giorno in cui l’ex Presidente del consiglio europeo è stato nominato primo ministro.

A un occhio esterno questa teoria del complotto potrebbe anche far sorridere, se non fosse che ha fatto ormai presa su milioni di polacchi, grazie allo spregiudicato utilizzo dei media pubblici fatto dal precedente governo.

Proprio sugli organi di informazione statale, e in particolare sulla televisione di stato Tvp, si è consumata la prima grande battaglia.

La grande battaglia dei media
Il 19 dicembre il ministro della Cultura Bartłomiej Sienkiewicz ha licenziato i vertici della tv, della radio e dell’agenzia di stampa nazionale. Una mossa necessaria, secondo il nuovo governo, per ristabilire la loro funzione informativa, dopo che per otto anni erano stati trasformati in mero organo di propaganda. Un atto illegale secondo il partito di Kaczyński, secondo cui solo il Consiglio dei media nazionali può prendere questo tipo di decisioni. Il Consiglio dei media nazionali è un organo istituito da Diritto e Giustizia nel 2016, sulla cui costituzionalità sono stati espressi dei dubbi, e la cui formazione resterà in carica fino al 2028.

La transizione è stata turbolenta fin da subito, con l’occupazione fisica dei palazzi in cui si trovano le sedi interessate, da parte dei deputati di Diritto e Giustizia. Il momento più drammatico quando i nuovi vertici dell’azienda hanno staccato il segnale di Tvp Info, che non accettava il cambio di direzione. Alla fine il passaggio di consegne c’è stato, seppur forzato, ma la battaglia non è finita. A fine anno il presidente della Repubblica Andrzej Duda ha posto il veto sulla legge di bilancio, che prevedeva lo stanziamento di tre miliardi di złoty (circa seicentottantuno milioni di euro) per Tvp. Sienkiewicz ha risposto mettendo in stato di liquidazione i media, che ora si ritrovano in una situazione economica disastrosa.

L’arresto di Kamiński e Wąsik
A complicare lo schema c’è il caso legato all’arresto dei due deputati di PiS Maciej Wąsik e Mariusz Kamiński, quest’ultimo ministro dell’Interno tra il 2019 e il 2023. Ma per capire questa storia bisogna fare un passo indietro.

Wąsik e Kamiński sono stati condannati in primo grado nel 2015 in un processo a loro carico per abuso di potere. I fatti contestati risalgono al 2007 quando i due erano a capo del Cba (Ufficio Centrale Anticorruzione) e, secondo i giudici, orchestrarono un caso di corruzione per incastrare il politico Andrzej Lepper, a quel tempo ministro dell’Agricoltura e leader del partito ruralista Samoobrona (Autodifesa). In quel periodo Samoobrona faceva parte di una coalizione di governo piuttosto instabile con Diritto e Giustizia. Secondo le ricostruzioni l’azione di Kamiński e Wąsik era da leggersi come un tentativo di favorire proprio il partito di Kaczyński, che in questo modo avrebbe drenato elettori e parlamentari all’alleato.

A seguito della sentenza di condanna Kamiński e Wąsik fecero ricorso in appello, ma pochi mesi dopo beneficiarono della grazia emessa nei loro confronti dal neoeletto Presidente Andrzej Duda. Tuttavia il fatto che il perdono presidenziale fosse arrivato prima dell’esito dell’appello sollevò da subito molti dubbi. L’anno scorso una sentenza della Corte Suprema ha stabilito che in effetti quella grazia non era valida. In questo modo è ripreso il processo d’appello che ha portato a una seconda condanna, parzialmente ridotta a due anni di reclusione e a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici.

Diritto e Giustizia ritiene che si tratti di una sentenza politica – la sentenza è arrivata qualche giorno dopo il cambio di governo – e non accetta il decadimento dello status di parlamentari deciso dal maresciallo del Sejm (il parlamento polacco) Szymon Hołownia. Duda d’altro canto non riconosce il verdetto della Corte Suprema e ritiene che la sua grazia del 2015 sia ancora valida. La figura di Duda si è erta a protagonista il giorno in cui è stato formalizzato il mandato d’arresto. Wąsik e Kamiński sono stati invitati al palazzo presidenziale e lì sono rimasti per parecchie ore, mentre la polizia stazionava fuori ad aspettarli. Una situazione surreale, superata nel momento in cui Duda è dovuto uscire per recarsi a un incontro istituzionale. La polizia ha approfittato dell’assenza per entrare nell’edificio e procedere all’arresto. Duda informato, ha fatto subito dietrofront ma è stato bloccato, pare, da un autobus del trasporto pubblico di Varsavia. Questo dettaglio ha ovviamente scatenato le fantasie complottiste.

La rabbia per gli arresti unita a quella per il “ratto dei media pubblici” è confluita nella “Protesta dei polacchi liberi”, tenutasi l’11 gennaio a Varsavia. Questa manifestazione, convocata un paio di settimane prima da Kaczyński ha portato nella capitale polacca tra le sessantamila e le settantamila persone. La stima è spannometrica e sta a metà tra gli improbabili centoventimila annunciati dagli organizzatori e gli altrettanto improbabili trentacinquemila comunicati dal Municipio. Si tratta in ogni caso di un numero considerevole considerando che la marcia si è tenuta nel pomeriggio di un giorno feriale con la temperatura qualche grado sotto lo zero. Il fatto che tante persone abbiano sfidato il freddo per protestare contro “il regime di Donald Tusk” indica quanto il Paese sia polarizzato. Kaczyński è riuscito a ricompattare le fila del suo partito dopo la bruciante sconfitta elettorale. Tra pochi mesi ci saranno le elezioni amministrative locali, seguite a giugno dalle europee. Perdere di nuovo non è ammissibile.

La vicenda di Kamiński e Wąsik è ben lontana da essere risolta. Duda ha annunciato l’avvio del procedimento di una nuova grazia, che però stavolta dovrà passare attraverso il ministro della Giustizia Adam Bodnar e il tribunale che ha emesso la sentenza di condanna. Una procedura lunga e dall’esito incerto.

Ombre lunghe sul governo
Proprio il ministro della Giustizia si trova al centro della terza vicenda che sta caratterizzando questo inizio di legislatura, a causa della sua decisione di licenziare il procuratore di stato Dariusz Barski. Secondo Bodnar, la sua nomina, avvenuta nel 2022, non sarebbe valida, in quanto Barski era già andato in pensione e quindi la legge non avrebbe consentito l’assunzione dell’incarico. Diritto e Giustizia, e ancora una volta Duda, contestano ferocemente la mossa di Bodnar. Secondo il Presidente la sostituzione del procuratore di stato può avvenire solo con un suo consenso scritto e dopo consultazione con il Primo ministro, cosa che in questo caso non è avvenuta. Duda si è pertanto rivolto al Tribunale Costituzionale, organo allineato a Diritto e Giustizia, che ha immediatamente congelato il licenziamento di Barski.

Proprio il Tribunale Costituzionale si prepara a diventare centrale nei prossimi mesi. Secondo l’ex maresciallo del Sejm e luogotenente di Diritto e Giustizia, Elżbieta Witek tutte i prossimi disegni di legge dovrebbero essere rimandati al vaglio del Tribunale Costituzionale. La ragione sta nel fatto che l’iter legislativo dovrebbero passare attraverso i quattrocentosessanta deputati del Sejm, non quattrocentocinquantotto considerando l’assenza forzata di Wąsik e Kamiński.

La minaccia dunque è quella di una paralisi, senza contare la possibilità di veto da parte del Presidente. Questo potere è stato peraltro già esercitato da Duda a fine dicembre per la legge di bilancio. Una nuova versione approdata nuovamente sui banchi del Sejm questa settimana dovrà necessariamente essere approvata entro la fine del mese, altrimenti il Presidente avrà la facoltà di sciogliere le camere. Questa eventualità, considerata come “nucleare” al momento non appare come probabile, considerando che farebbe male più a Diritto e Giustizia, in calo continuo nei sondaggi, che alla coalizione di governo, ma dà la misura delle difficoltà e della criticità del momento. Già il solo fatto che se ne parli è un problema per il pur giovane governo di Donald Tusk.

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