Campo liberoInvece di sognare un nuovo Ulivo, Schlein dovrebbe rubare gli elettori a Conte

Il leader grillino è un politico di destra e la sua piattaforma è incompatibile con una politica progressista, riformista, europeista, garantista. La segretaria dem deve prenderne atto e mostrare una linea chiara per recuperare i tanti voti persi dal Partito democratico in questi anni

LaPresse

È ora che la figlia lasci la casa del padre. Che Elly Schlein si emancipi dagli schemi di Romano Prodi (e da quelli di Pier Luigi Bersani  ma questo per lei è meno problematico). Prodi, coerentemente con la sua storia, è tuttora incapace di svincolarsi dallo schema dell’Ulivo, cioè una coalizione di buoni per battere nelle urne i cattivi: ieri Silvio Berlusconi, oggi Giorgia Meloni. Ma il problema non è nell’idea della coalizione in sé, ma nel tipo di coalizione.

La situazione è molto cambiata dal 1996 e dal 2006 (le due vittorie di Prodi) perché lui come Schlein presuppongono che il piatto forte della coalizione sia l’alleanza tra il Partito democratico e Giuseppe Conte. Che non è Fausto Bertinotti, che pure costituiva un bel problema. 

No, Conte è un uomo di destra. Siccome egli vela questa sua collocazione con uno spesso strato di opportunismo, la cosa si vede di meno ma la sostanza è questa. Basta guardare le sue ultime uscite: nessuna preferenza tra Joe Biden e Donald Trump (anzi, semmai sulla pace forse è meglio quest’ultimo); niente armi a Israele (questione inesistente, ma che la dice lunga) e il terrorismo è figlio della politica di Israele (così ieri la contiana Stefania Ascari); no allo Ius soli motivato con una supercazzola incomprensibile; no a protestare contro lo strapotere del governo sulla Rai. E prima c’era stato il no al Mes, il no alle armi all’Ucraina, il manettarismo sulla giustizia. Tutta roba incompatibile con una politica progressista, riformista, europeista, garantista cioè incompatibile con ciò che il Pd afferma di voler essere e infatti su tutte queste questioni in Parlamento Pd e M5s votano sempre in modo diverso, salvo certe furbate parlamentari. 

Dunque Elly Schlein dovrebbe mobilitare i suoi dirigenti, il suo partito, in coerenza con quello che dice sull’Ucraina, sulla Rai, sugli Stati Uniti, contro Conte. Facendo appello a quegli elettori anche genericamente di sinistra che hanno votato Movimento 5 stelle per protesta, per disaffezione, per noia. È lì una bella parte del serbatoio di voti da cui il Pd può attingere se vuole risalire la china, visto che di riffa o di raffa non sta risalendo affatto, anche perché non sa parlare agli elettori più moderati.

Ci vuole dunque una linea politica chiara che punti alla ripresa dei consensi finiti a Conte, il grande imbonitore che ha saputo ergersi a paladino dei deboli con misure clientelari come il reddito di cittadinanza e il Superbonus che pesano sul debito pubblico. Che senso ha, ormai, chiedere a Conte da che parte sta, come ha detto Prodi? Gli ha risposto facile Carlo Calenda: «Mi pare che Conte abbia già deciso da che parte stare: con Trump e con Putin. Prenderne atto e voltare pagina sarebbe già un inizio».

Sulla Rai, l’ultimo sgambetto che ha praticamente umiliato la leader del Pd: «I Cinquestelle difendono il governo anche sulla Rai. E la cosa incredibile è che anche il Pd finalmente se ne sta accorgendo. Ci hanno messo tre anni, ma adesso ci arrivano anche loro, eccome se ci arrivano», ha osservato Renzi. Ma davvero se ne stanno accorgendo? A dire il vero, porgono l’altra guancia. 

Il problema è sempre lo stesso da mesi: cosa vuole essere il Pd? Se ambisce a essere un partito di sinistra di governo allora non può intendersi con il M5s che non è né di sinistra né di governo (l’abbiamo visto all’opera nella scorsa legislatura). Dice benissimo il direttore del Regno, Gianfranco Brunelli: «Parlare di campo largo che raduni il maggior numero di soggetti è già di per sé una definizione politicamente poco connotativa rispetto a definizioni come centro-sinistra (con o senza trattino). Si cerca un qualche accordo a geometria variabile, elezione per elezione, viste le diverse regole della competizione, piuttosto che una definizione politico-simbolica e politico-programmatica. Il paradosso è che, mentre le opposizioni si dividono in nome della retorica dell’unità, la coalizione di governo sta unita al potere in nome delle divisioni».

Dunque è possibile che si avvicini il tempo di una verifica di fondo sulla natura del M5s contiano e sulla impossibilità di insistere con la linea della generosità e si comprenda che la sconfitta del camaleontico avvocato e della sua linea è una precondizione per ragionare di alleanze. O al Nazareno vogliono aspettare la vittoria di Trump per capire che con questo Conte l’alleanza è impossibile? Prima bisogna batterlo, poi si vede. C’è tempo, Elly.

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