Questione di buon sensoIl problema irrisolto dello smaltimento dei rifiuti radioattivi

In Italia i rifiuti ad alta radioattività restano in attesa di una risposta sostenibile: il Deposito nazionale è utile, ma non è la soluzione definitiva per stoccare queste scorie. Gli esperimenti da cui attingere non mancano

Wikimedia Commons

Che coinvolga noi o un altro Paese, il tema del nucleare riesce sempre ad accendere l’opinione pubblica riportandoci a vecchi scetticismi e profondi timori. È accaduto anche nelle ultime settimane, dopo un annuncio da parte del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica che ha riacceso i riflettori non solo sul nucleare, ma soprattutto sulle scorie a esso collegate. 

Sebbene da tempo l’Italia abbia chiuso nettamente al nucleare ai fini energetici, la questione rimane attuale e ancora insoluta. A dimostrarlo è il bisogno non più procrastinabile di smaltire correttamente i rifiuti radioattivi creando un Deposito nazionale in cui permettere tale processo, in uno dei siti presenti nell’elenco pubblicato dal ministero lo scorso dicembre. Ma da dove arriva questa lista e cosa ha portato l’Italia, come il resto d’Europa e non solo, alla necessità di disporre di un luogo dove stoccare le scorie radioattive?

Cosa sono i rifiuti radioattivi
La parabola – a tratti discendente – del nucleare in Italia ha inizio subito dopo la seconda guerra mondiale, in un periodo di grande fermento politico ed economico. Mentre nel 1963 il presidente francese Charles de Gaulle e il cancelliere tedesco Konrad Adenauer firmavano il Trattato dell’Eliseo, concretizzando l’auspicio di buoni rapporti tra le Nazioni, in Italia, nello stesso anno, si inaugurava la prima centrale nucleare a Latina. Il miracolo italiano del dopoguerra tra boom economico e diffusione dei beni di consumo di massa passa anche per la ricerca e gli investimenti profusi in campo energetico culminati, per il nucleare, con il lancio della quarta centrale italiana nel 1978. 

Qualcosa però si accende nell’opinione pubblica di quegli anni, il fronte antinucleare prende piede fino ad arrivare a uno dei capitoli più sconvolgenti degli anni Ottanta. Il disastro di Chernobyl diventa il trampolino di lancio verso il referendum del 1987, attraverso il quale gli italiani scelgono di abbandonare il nucleare come fonte di approvvigionamento energetico, orientando così evoluzioni e scelte successive. 

Nucleare o non nucleare, la questione potrebbe almeno apparentemente dirsi chiusa. Le nostre vite però ci dimostrano che non c’è niente di più lontano dalla realtà. Come collettività ci siamo probabilmente illusi che rifiutare l’energia nucleare si traducesse in maggiore sicurezza, nell’esonero da ogni obbligo e conseguenza accessoria che deriva dal suo impiego. 

«Le sorgenti radioattive vengono usate tutti i giorni: in ambito medicale, industriale e nella ricerca, per esempio. I rifiuti radioattivi sono il risultato dell’utilizzo di sorgenti radioattive che continuiamo a impiegare quotidianamente nonostante l’Italia abbia deciso di uscire dall’utilizzo del nucleare ai fini energetici da dopo Chernobyl», spiega Marco Ricotti, ingegnere nucleare e docente ordinario di impianti nucleari al Politecnico di Milano, nonché presidente del Consorzio interuniversitario ricerca tecnologica nucleare (Cirten). 

In Italia non abbiamo mai smesso – e mai lo faremo presumibilmente – di produrre scorie radioattive. Queste ultime, a riprova di ciò, sono controllate ogni anno dall’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin), uno degli enti che si occupa di calcolare e osservare quanti e dove sono i rifiuti radioattivi in Italia. 

Nel 2022, secondo il report annuale di Isin, il volume totale dei rifiuti radioattivi ha raggiunto più di trentunomila metri cubi collocati in ventiquattro impianti in otto regioni. Parlare di quantità e volume dei rifiuti non esaurisce però l’argomento poiché, quando si pensa al nucleare, a spostare l’ago della bilancia è la radioattività delle scorie. 

«Possiamo suddividere i rifiuti nucleari in tre grandi categorie: quelli a bassa e bassissima radioattività e vita breve, cioè che decadono in fretta, nell’ordine di ore, giorni o pochi anni; a media radioattività a vita medio-breve; i rifiuti ad alta radioattività e a vita lunga, generati solo dai reattori nucleari e che hanno un alto contenuto di radioattività. Questi, infatti, decadono in centinaia o addirittura migliaia di anni», sottolinea Ricotti. Trentunomila metri cubi di rifiuti che, tenendo conto della loro classificazione e in barba ai più irrazionali allarmismi, non potranno essere in massima parte ad alta radioattività. 

Come mostra Legambiente, infatti, quattordicimila metri cubi sono rifiuti ad attività molto bassa, 12.500 a bassa attività, tremila a media attività e mille quattrocento a vita molto breve. Il problema principale sta, più che nella radioattività e nella pericolosità intrinseca a questi rifiuti, nel trovare finalmente un posto dove smaltirli definitivamente. 

Mentre a oggi circa quattordici Nazioni in Europa utilizzano il nucleare per produrre energia, smaltendo le proprie scorie correttamente, l’Italia arranca da anni nell’iter per la realizzazione di un Deposito nazionale, una mancanza che nel corso del tempo è valsa numerose procedure d’infrazione. Una falla nel panorama nucleare europeo che ci fa procedere a rilento rispetto a una questione apparentemente solo burocratica, ma soprattutto di buon senso. 

«C’è da dire che i rifiuti nucleari in Italia sono gestiti in sicurezza e che quindi non dobbiamo avere un Deposito nazionale perché ci sono problemi di sicurezza. Dobbiamo averlo perché gli attuali depositi sono realizzati sui siti delle vecchie centrali e sono temporanei, ovvero fatti per gestire i rifiuti in sicurezza per decine di anni, ma non per centinaia», continua Ricotti. 

I rifiuti, anche quelli meno radioattivi, devono quindi lasciare questi luoghi temporanei per essere smaltiti in un sito definitivo dal quale, come afferma Ricotti, «non usciranno fin quando non avranno un grado di radioattività comparabile con la radioattività naturale». Un’opera ingegneristica come ne esistono molte altre in Europa e nel mondo, da cui a questo punto non ci resta che prendere spunto. 

«Si tratta di una struttura molto controllata e molto semplice, composta da barriere multiple protettive. Finora in Francia, Spagna e Slovacchia hanno realizzato strutture simili e non hanno mai avuto problemi», dice l’esperto. Progettato per contenere novantamila metri cubi di rifiuti radioattivi, il Deposito renderà definitivamente inermi i rifiuti a bassa e media, mentre per i rifiuti ad alta radioattività e a vita lunga la strada è ancora ardua. 

Ospitati in cask di massima sicurezza per lungo tempo ma comunque temporaneamente, i rifiuti ad alta radioattività resteranno in attesa di un’alternativa sostenibile poiché, sebbene necessario, il Deposito nazionale non rappresenta la soluzione definitiva per lo smaltimento di queste scorie. Gli esperimenti non mancano. 

«Gli europei faranno da apripista. I finlandesi, per esempio, nel sito di Onkalo stanno costruendo da quindici anni il primo sito di smaltimento definitivo di rifiuti altamente pericolosi, ovvero quelli derivanti dal combustibile nucleare. Si sta studiando affinché, in Europa, i Paesi che non hanno grandi quantità di questi rifiuti possano concordare una soluzione comune», dice Ricotti.

Deposito nazionale 
Primavere e governi diversi, ma in Italia la situazione resta invariata sull’orizzonte nucleare. Già nel 2021 il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica prevedeva che, entro la fine del 2023, si giungesse all’individuazione del sito da dedicare al Deposito nazionale. Tre anni dopo, l’elenco di aree presenti nella proposta di Carta nazionale delle aree idonee (Cnai) prodotta da Sogin (società statale che, tra le altre cose, si occupa della messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi) sortisce effetti prevalentemente negativi.

Tra i cinquantuno Comuni (in Basilicata, Puglia, Lazio, Piemonte, Sicilia e Sardegna) presenti nell’elenco ha la meglio il fronte del “No”. Considerando i difficili trascorsi, il governo ha deciso, nel 2023, di aprire alle autocandidature, cioè di permettere a Comuni non presenti nell’elenco Cnai di proporsi per ospitare il Deposito nazionale. Decisione che non piace a Legambiente, che teme ulteriori lungaggini nella realizzazione del progetto e una perdita di credibilità. 

Intanto, proprio come per le aree prescelte, l’avanzamento della candidatura non potrà prescindere da una valutazione tecnica del potenziale sito: sismicità, livello delle falde acquifere e pericolo alluvionale sono solo alcuni dei criteri da rispettare, in linea con gli standard previsti dall’Agenzia internazionale dell’energia atomica (Iaea). 

Intanto, l’apertura alle autocandidature segnerà un cambio di paradigma, un tentativo di normalizzare il discorso sul nucleare e sfatare la tradizionale paura legata al tema. Operazione che, all’estero, è già stata intrapresa. «Questi rifiuti», racconta Ricotti, «sono talmente poco pericolosi che i francesi hanno costruito il loro sito principale ad Aube, nella regione dello champagne». 

In Italia solo l’idea di un deposito di scorie nucleari nelle Langhe ci trascinerebbe, a parità di magnitudo, in un armageddon senza ritorno. Eppure, a osservare la realtà, l’unica apocalisse da cui possiamo divincolarci è quella dell’irrazionalità, del pregiudizio ormai smentito e dei bias emotivi antiscientifici che ingabbiano, come spesso accade nel nostro Paese, il settore del nucleare. 

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