Lontana ma vicinaLa fusione nucleare sta già influenzando le politiche energetiche di alcuni governi

L’affermazione commerciale di questa tecnologia è molto distante, ma Stati Uniti e Cina non hanno intenzione di tirarsi indietro. Washington vuole impedire che Pechino arrivi a controllare l’ennesima soluzione critica per la transizione ecologica

AP Photo/LaPresse (Ph. Steven Senne)

La Cop28 di Dubai è servita agli Stati Uniti per lanciare due grandi partnership internazionali sull’energia nucleare. La prima, la Declaration to triple nuclear energy del 2 dicembre, è un impegno a triplicare la capacità nucleare globale entro il 2050 firmato da altri ventuno Paesi (non c’è l’Italia): Francia, Finlandia, Paesi Bassi, Regno Unito, Giappone, Corea del sud, Emirati Arabi Uniti e non solo. La seconda, l’engagement plan del 5 dicembre, è invece dedicata alla fusione nucleare, una tecnologia potenzialmente rivoluzionaria ma lontana dall’affermazione commerciale, nonostante i grandi investimenti e qualche piccolo passo avanti.

Entrambi i documenti hanno un obiettivo climatico e uno politico. Quanto al clima, il nucleare è una fonte di energia pulita che, grazie alla sua continuità di generazione, può dare un contributo importante alla sostituzione dei combustibili fossili e al raggiungimento della neutralità carbonica. L’obiettivo politico, invece, è frenare l’espansione di Russia e Cina e convogliare gli investimenti nelle tecnologie americane e occidentali: dei trentuno reattori a fissione in costruzione nel mondo dal 2017, ben ventisette sono di progettazione russa o cinese. Entro il 2030, dice l’Agenzia internazionale dell’energia, il primo produttore di energia atomica sarà Pechino; l’Europa e il Nordamerica rischiano così di perdere rilevanza in un settore cruciale per la transizione ecologica.

L’accordo per la triplicazione della capacità nucleare si concentra sulle tecnologie disponibili di fissione, senza tuttavia dimenticare quelle emergenti: i piccoli reattori modulari promettono di trasformare la maniera di concepire e realizzare le centrali, ma stanno incontrando qualche ostacolo nello sviluppo. Il piano di coinvolgimento guarda invece più distante nel futuro, alla fusione nucleare che per il momento è ferma allo stato sperimentale. 

La fusione funziona all’opposto della fissione: non genera energia dalla divisione di atomi pesanti bensì dall’unione di atomi leggeri, senza rilasciare emissioni e senza nemmeno produrre rifiuti ad alta radioattività. Per farlo utilizza dei magneti o dei laser, ma il guadagno energetico netto – cioè la generazione di più energia di quanta ne viene consumata nel processo – è stato raggiunto solo due volte, entrambe dal laboratorio americano Lawrence Livermore, in quantità molto modeste e in maniera discontinua.

Attraverso l’engagement plan, gli Stati Uniti vogliono accelerare il progresso dell’energia da fusione. Gli ambiti di collaborazione con i trentacinque governi coinvolti sono la ricerca scientifica, lo sviluppo della filiera, la formazione del personale tecnico e la regolazione normativa, in modo da definire degli standard condivisi. «La fusione, credo, può essere una parte fondamentale del nostro futuro energetico», ha detto l’inviato americano per il clima John Kerry a Dubai, «ma è chiaro che non possiamo realizzare questa grande ambizione da soli».

Il partner privilegiato degli Stati Uniti sembra essere il Regno Unito, con il quale è stato firmato un accordo di cooperazione l’8 novembre, ma anche altri alleati stanno inseguendo la fusione. La Francia meridionale ospita Iter, il più grande progetto internazionale di fusione via magnete. A inizio dicembre a Naka è stato inaugurato il reattore JT-60SA, frutto di una collaborazione tra Giappone e Unione europea alla quale ha partecipato anche l’Enea, l’agenzia italiana che si occupa di tecnologie per l’energia e lo sviluppo sostenibile. La fusione e non la fissione è «la grande sfida» per il nostro Paese, secondo Giorgia Meloni, perché su questa tecnologia «l’Italia è più avanti di altri». 

La presidente del Consiglio alludeva probabilmente agli investimenti di Eni, che è azionista di riferimento di Commonwealth fusion systems: la startup del Massachusetts – visitata recentemente proprio da Kerry – promette di avviare la prima centrale elettrica da fusione al mondo negli anni 2030. L’impianto avrà le dimensioni di un campo da basket e una capacità di quattrocentosessanta megawatt.

Secondo la Fusion industry association, ad oggi nel mondo i progetti di fusione nucleare hanno ricevuto finanziamenti per oltre sei miliardi di dollari; l’ottanta per cento degli investimenti si concentrano negli Stati Uniti. «Ci stiamo avvicinando sempre di più a una realtà alimentata dalla fusione. E allo stesso tempo, sì, esistono significative sfide scientifiche e ingegneristiche», ha riconosciuto Kerry. «Una riflessione attenta e una politica ponderata saranno fondamentali per affrontare la situazione». 

Ma l’attrazione dei capitali e la ricchezza economica non sono le uniche motivazioni dell’alleanza sulla fusione nucleare. C’è anche una finalità geopolitica, come ha spiegato Andrew Holland, il capo della Fusion Industry Association: «Stiamo cercando di costruire una squadra globale per arrivare prima dei cinesi, in modo che i cinesi non dominino un’altra nuova tecnologia». Il messaggio è chiarissimo: Washington vuole impedire che Pechino arrivi a controllare l’ennesima tecnologia critica per la transizione ecologica, dopo i pannelli solari, le batterie e le turbine eoliche (materie prime e materiali intermedi inclusi).

L’America sembra essere in vantaggio nella (lunga) corsa alla fusione, ma la Cina è determinata ad arrivare prima. Se Washington ha superato lo scoglio del net energy gain nella fusione via laser, Pechino detiene il record di durata del confinamento nella fusione via magnete: quattrocentotré secondi. Per quanto possa sembrare lontana, o addirittura irraggiungibile, la fusione nucleare sta già determinando l’azione concreta dei governi e alimentando l’ennesima competizione energetico-politica.

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