Tratto dall’Accademia della Crusca
Scappato di casa viene, in genere, utilizzato (anche al femminile e al plurale) per indicare una persona trasandata, nell’aspetto e nell’abbigliamento, o poco adatta a ricoprire un determinato ruolo. Stefano Bartezzaghi, come ricorda anche una lettrice che ha posto il quesito, ha affrontato più da vicino i suoi usi e significati in un articolo sulla “Repubblica” del 10 gennaio 2019; in particolare, oltre a mostrare la sua recente vitalità attraverso diversi esempi tratti dalle parole di cantanti e politici, Bartezzaghi sostiene, per quanto riguarda i tratti semantici, che “di volta in volta può significare incompetente, inaffidabile, tendenzialmente criminale, puttaniere, malvestito, malfamato, affamato: impresentabile”. Le seguenti occorrenze, tutte dell’italiano contemporaneo, presentano alcune delle accezioni possibili, rispettivamente quelle di ‘malfamato’, ‘malvestito’ (e non solo) e ‘incompetente’:
Agli occhi di qualcuno potrei sembrare uno scappato di casa, un nomade, un bisognoso di aiuto, forse sono tutto ciò, o forse sono solo uno che passeggia alle quattro e mezza del mattino. (Eugenia Nicolosi, Alessia Rotolo, La notte porta scompiglio. Così è Palermo dal tramonto all’alba, Palermo, Flaccovio Editore, 2016, [s.i.p.])
Io sembravo, o meglio ero, uno scappato di casa, spettinato, gli abiti stropicciati, sfatto da ore di lavoro, confuso dalle troppe domande che mi assalivano, galleggiavo nell’oceano dell’incertezza avvolto dalla nebbia, sopraffatto dalla corrente. (Gabriele Ghio, La mia casa sul ciliegio. Lasciare la città, vivere in un bosco, essere felici, Milano, Edizioni Terra Santa, 2022, [s.i.p.]).
Il deputato scelto da Silvio Berlusconi per sostituire Lucia Ronzulli come coordinatore degli azzurri lo ha definito uno scappato di casa come tutti i parlamentari del Movimento Cinque Stelle. (Toninelli “scappato di casa”. Di Battista impazzisce da Floris, liberoquotidiano.it, 24 maggio 2023)
Si può rintracciare, come vedremo meglio più oltre, un nucleo semantico originario, da cui si sono poi sviluppati nuovi significati che hanno affiancato – e non sostituito – quello iniziale.
Alcuni dei dizionari italiani, storici e dell’uso contemporaneo – come il GDLI, il GRADIT e lo Zingarelli 2024, secondo il quale l’espressione appartiene al linguaggio “colloq.” (= colloquiale) – registrano scappato di casa col significato di ‘persona trasandata e trascurata nell’aspetto e nel vestire’. Tra tutti, il dizionario demauriano lo marca come RE (= Regionale), specificamente piemontese. Da una ricerca in Google libri sono emerse alcune attestazioni della seconda metà del XIX secolo che confermano questo dato: in due dizionari piemontesi (Giovanni Pasquali, Nuovo dizionario piemontese-italiano, Torino, Moreno, 1869, p. 494; Giuseppe Gavuzzi, Vocabolario piemontese-italiano, Torino-Roma, Roux e C., 1891, p. 551), che hanno permesso di datare l’espressione o, quantomeno, di disporre di maggiori informazioni relative al suo periodo di sviluppo, si legge la forma dialettale scapà da cà, indicata come sinonimo di scapestrà ‘scapestrato’. Anche alla luce di questa documentazione, l’origine sembra essere piuttosto trasparente: lasciare la propria casa, spesso con poche cose al seguito, può portare ad assumere un aspetto trasandato e/o un comportamento sregolato, per l’appunto da scapestrato; aggiungiamo, a questo, che abbandonare la propria famiglia era, in passato, considerato un atto moralmente deprecabile e, da ciò, può derivare la valenza non propriamente positiva attribuita all’espressione. Nel GDLI sono riportati due esempi letterari, tratti da due scrittori fortemente legati al territorio piemontese come Cesare Pavese, nato a Santo Stefano Belbo, e Giovanni Arpino, che ha trascorso quasi tutta la sua esistenza tra le città di Bra e, soprattutto, Torino:
Uno poteva anche spettarselo ma, quando lo rilascino, lì per lì non si sente ancora di questo mondo e batte le strade come uno scappato di casa. (Cesare Pavese, Lavorare stanca, Torino, Einaudi, 1955 [19361], p. 8)
Ti vanno le ragazzine? Ha una faccia da cattiva: da scappata di casa. (Giovanni Arpino, La trappola amorosa, Milano, Rusconi, 1988, p. 129)
Nella poesia dialettale, scapà da cà si trova in un testo su Don Bosco – dal titolo, per l’appunto, Don Bòsch – del piemontese Nino Costa (Torino, 1896-1945):
Maraje ’n mes dla strà; triste maraje,
birichin, barabòt, scapà da cà,
chi sa ’nt che paota ch’a sarìo cascà
s’a j’era nen Don Bòsch ch’a l’ha salvaje. (in Cento poesie, a cura di Antonio Spadaro, Milano, RCS Media Gruop, 2014, e-book)
Si può, inoltre, osservare un’altra occorrenza in Luigi Pietracqua (Voghera 1832-Torino 1901), scrittore molto noto nell’ambiente teatrale piemontese:
Come doi veri scappà da ca’; a l’han sempre seguità a ride e a badinè, sonand a quattr man su l’istess piano dl’elegant Oberge, cantand ansema d’ij Duet improvvisà, […]. (Luigi Pietracqua, L’ultim dij Castelverd, Torino, Viglongo, 1977, p. 138)
Più recentemente l’espressione appare, stampata in corsivo in quanto in dialetto, in un romanzo del torinese Gian Luca Favetto, che sostiene di averla sentita dalla nonna, vissuta, da ultimo, proprio a Torino:
Diego Barbera è in maglietta, maglioncino, jeans e scarpe spesse da ginnastica, uno scapà de ca’, avrebbe detto mia nonna, che è nata a Monte Magrè in provincia di Vicenza, ha lavorato a Malo, si è sposata a Milano, ha vissuto a Ponza, in Austria, in Sardegna ed è finita a Torino – arriviamo dalle sue parti oggi. (Gian Luca Favetto, Italia, provincia del Giro. Storie di eroi, strade e inutili fughe, Milano, Mondadori, 2006, p. 126)
È, poi, sempre in corsivo, in un testo dello scrittore biellese Emilio Jona, il quale la utilizza per meglio descrivere i sansossì e le lingere, che, nel dialetto piemontese, indicano gli apatici e inetti e i vagabondi:
[…] delle inquietudini libertarie dei sansossì e delle lingere (gli scapà da cà) ed è insomma l’altra faccia della medaglia piemontese: […]. (Emilio Jona, Le ciminiere non fanno più fumo. Canti e memorie degli operai torinesi, Roma, Donzelli, 2008, p. 226)
Un simile modo di dire (sembrare uno scappato di casa) si può, inoltre, leggere in un articolo di Paolo Tibaldi nella “Gazzetta d’Alba”, nel quale vengono citate le parole che le madri erano solite rivolgere ai propri figli, non particolarmente curati: “Beica che stat, te më smìj në scapadacà”, ossia ‘Guarda in che stato sei, sembri proprio uno scappato di casa’ (Scopriamo il significato del termine “Scapadacà” con Paolo Tibaldi, gazzettadalba.it, 24/6/2017). Per la diffusione anche a Saluzzo si veda Lorenzo Burzio, Cinquecento nuovi modi di dire piemontesi raccolti nel Saluzzese dai parlanti. Con un commento individuante l’area culturale di provenienza, Torino, Gribaudo, 1979, s.v. A smia n’ scapà da ca.