Il principio per il quale l’arte non è obbligata a insegnare la differenza tra il bene e il male a nessuno, assioma crociano spesso dimenticato, si sta dimostrando fragile in tempo di guerra. E così, alla fine, incalzati da ogni dove, i responsabili della fondazione La Biennale di Venezia, hanno emanato una nota ufficiale sulla polemica nata dopo il lancio della petizione del collettivo Art Not Genocide Alliance. L’iniziativa chiedeva l’esclusione del padiglione nazionale di Israele in risposta alle politiche del governo israeliano a Gaza.
Poche righe svogliate (ed è comprensibile) ieri in serata hanno risposto alle oltre diciottomila firme dell’appello: «In merito alla partecipazione all’Esposizione internazionale d’arte di Paesi presenti nei padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e in città, La Biennale di Venezia precisa che tutti i Paesi riconosciuti dalla Repubblica Italiana possono in totale autonomia richiedere di partecipare ufficialmente. La Biennale, di conseguenza, non può prendere in considerazione alcuna petizione o richiesta di escludere la presenza di Israele o Iran dalla prossima 60esima Esposizione Internazionale d’Arte (20 aprile – 24 novembre 2024)».
Tra i firmatari una lunga lista di artisti, curatori di rassegne, docenti e studenti di arte e architettura. Tra gli italiani, l’artista Cesare Petroiusti, la curatrice Emilia Giorgi, Giulia Albarello del Museion di Bolzano, Lucrezia Cippitelli, docente di Estetica a Brera.
Nella giornata di ieri il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha commentato la petizione con un duro attacco. Il comunicato invece usa toni più neutri: «La chiusura del padiglione della Russia alla 59edizione dell’Esposizione Internazionale d’Arte 2022, citato nella petizione di oggi è stata decisa dal commissario e dal curatore nominati dal Ministro della Cultura della Federazione Russa, che ha comunicato anche che non parteciperà alla prossima edizione». I vertici della fondazione, però vogliono anche mostrarsi bipartisan: «Ci sono anche artisti palestinesi nella prossima Esposizione internazionale a cura di Adriano Pedrosa, come risulta dalla lista dei partecipanti diffusa dalla Biennale il 31 gennaio 2024».
Ma questa settimana arte e guerra si sono scontrate anche sulla prossima edizione di Eurovision che si terrà a maggio a Malmö, in Svezia. Da quando l’organizzazione ha annunciato gli artisti in gara sono partite le polemiche in merito alla partecipazione di Isreale, con la cantante Eden Golan. La sua canzone, October Rain, ispirata alla tragedia dell’attacco di Hamas del sette ottobre, ha sollevato l’obiezione su un testo sospettato di essere politicamente schierato. Il quotidiano di Tel Aviv, El Hareetz, spesso non tenero verso Benjamin Netanyahu, ha pubblicato testimonianze indignate e difeso quello che è semplicemente un testo scritto su una tragedia che ha portato enormi sofferenze e che sta lasciando una ferita profonda.
Il brano della Golan è in inglese e contiene alcune parole in ebraico, così l’Unione Europea di Radiodiffusione ha aperto una fase di esame del testo e ha dichiarato di non aver ancora preso una decisione. E poi ha indicato una scappatoia: «Se una canzone è ritenuta inaccettabile per qualsiasi motivo, c’è la possibilità di presentare una nuova canzone o un nuovo testo, come previsto dalle regole del Concorso».
In queste ore, però, anche la posizione della Israele Broadcasting Corporation è stata piuttosto chiara: «Non c’è alcuna intenzione di sostituire la canzone. Se non sarà approvata, Israele non potrà partecipare alla competizione», ha commentato. Duro anche Miki Zohar, ministro della cultura e dello sport, che ha definito “scandalosa” l’idea che il brano possa non essere ritenuto idoneo alla partecipazione.