«Il tentativo di Putin di ricattare la nostra unione è completamente fallito. Al contrario, ha veramente spinto la transizione verde». Insomma: non soltanto il presidente russo non è riuscito a disgregare l’Europa con la sua arma del gas, ma ha pure finito per stimolare il passaggio all’energia pulita, danneggiando i suoi stessi interessi. Ne è convinta Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, che ha espresso il suo pensiero durante l’evento per il cinquantesimo anniversario dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea).
È una ricostruzione ovviamente parziale e ottimistica, ma ha un fondo di verità. L’Unione europea è davvero riuscita, pur tra grandi contraccolpi, nella difficile impresa di emanciparsi dal gas russo, che prima dell’invasione dell’Ucraina valeva oltre il quaranta per cento delle importazioni comunitarie e oggi solo il quindici per cento.
Due anni fa, «un’unità di energia su cinque consumata nell’Unione europea proveniva da combustibili fossili russi. Oggi è una su venti», ha affermato von der Leyen. «Nell’Unione europea abbiamo ottenuto complessivamente più energia dalle fonti rinnovabili che dalla Russia». E ancora: «l’anno scorso, per la prima volta in assoluto, abbiamo prodotto più elettricità dall’eolico e dal solare che dal gas».
La versione della presidente è supportata anche dall’ultimo rapporto del think tank Ember, secondo cui nel 2023 si è verificato «un collasso senza precedenti nella generazione di elettricità da carbone e gas» nell’Unione europea. La quota dei combustibili fossili è scesa al livello più basso dal 1990, mentre le fonti pulite (rinnovabili e nucleare) hanno rappresentato oltre i due terzi del mix elettrico comunitario. Il contributo del gas si è ridotto del quindici per cento su base annua, e quello del carbone del ventisei per cento. L’eolico ha superato il gas – non era mai successo – con una quota del diciotto per cento nel mix di generazione, un punto percentuale sopra; il solare è arrivato al nove per cento e l’idroelettrico si sta riprendendo dalla siccità del 2022.
Messa così, è una storia di successo assoluto. La realtà è invece più complessa, perché nel 2023 la domanda di elettricità nell’Unione europea è diminuita del 3,4 per cento su base annua, riducendo di conseguenza la necessità del contributo fossile. Rispetto al 2021, cioè all’anno prima dell’invasione russa dell’Ucraina e della crisi dei prezzi dell’energia, la domanda elettrica del 2023 è stata del 6,4 per cento inferiore. Una parte di questo calo è dovuta al clima invernale mite, ai progressi nell’efficientamento energetico ma anche ai risparmi nei consumi incentivati dai prezzi alti e – la cosa più grave – dalla minore richiesta industriale, in particolare dai comparti cosiddetti energivori come la siderurgia, la chimica o la cartaria.
Come ha scritto l’Agenzia internazionale dell’energia, «l’indebolimento dei consumi nel settore industriale è stato il principale fattore di riduzione della domanda di elettricità (nell’Unione europea, ndr), in quanto i prezzi dell’energia sono scesi ma sono rimasti al di sopra dei livelli pre-pandemici. Nel 2023 sono emersi anche segnali di distruzione permanente della domanda, soprattutto nei settori della chimica ad alta intensità energetica e della produzione di metalli primari». Nel 2023 le industrie energivore europee hanno pagato prezzi dell’elettricità quasi doppi rispetto alle loro concorrenti negli Stati Uniti e in Cina: è uno strascico della crisi scoppiata con l’aggressione russa all’Ucraina che sta avendo l’effetto di allargare il divario di competitività tra il Vecchio continente, l’America e l’Asia.
«È controverso affermare, come ha fatto Ursula von der Leyen, che la transizione energetica è accelerata», dice a Linkiesta Francesco Sassi, analista presso Ricerche industriali ed energetiche (Rie). Secondo l’esperto, è necessario «valutare caso per caso. A livello internazionale, la transizione accelera nei Paesi che possono permettersi le economie di scala legate alle fonti rinnovabili, come la Cina. Anche in Europa la transizione è proceduta con un certo impeto, ma è importante far notare che si consuma meno elettricità e che diversi progetti di energia rinnovabile stanno avendo problemi nonostante le politiche di incentivazione».
Inoltre, spiega Sassi, «stiamo assistendo a una fase di critica del Green deal, che sarà uno dei temi cruciali nella campagna per le elezioni europee». La contestazione più forte è quella proveniente dal settore agricolo; dai sondaggi, tuttavia, emerge che le opinioni pubbliche, pur appoggiando in astratto gli impegni per la riduzione delle emissioni, hanno qualche riserva sulle misure concrete da attuare (riqualificazione delle case, passaggio ai veicoli elettrici) per via dei loro costi.
Difficilmente l’Unione europea farà marcia indietro sulla decarbonizzazione, ma la questione del consenso pubblico alla transizione ecologica si è fatta maggiormente problematica. È probabile che alle elezioni di giugno i partiti di destra scettici o relativisti climatici guadagneranno seggi in Parlamento; alcune di queste formazioni – come AfD in Germania e Rassemblement national in Francia – hanno peraltro posizioni decisamente filorusse.