Lo scorso anno, al governo da pochi mesi, Giorgia Meloni era arrivata al G7 di Hiroshima circondata da sospetti e da quelle che lei stessa ha definito «fake news» della propaganda di sinistra. Ha dovuto commentare il richiamo «avventato» del premier canadese Justin Trudeau sui diritti civili come se in Italia fossero state introdotte misure coercitive sulla comunità Lgbtq. Oggi Giorgia Meloni presiede il forum dei Paesi liberi e industrializzati, è stata riabilitata grazie alla sua posizione filoatlantica e al rapporto personale e politico con Ursula von der Leyen, che sostiene nella riconferma alla guida della Commissione europea. Una presidenza che coincide con la campagna elettorale per le europee, nel momento più difficile per l’esercito ucraino, con l’uccisione di Alexey Navalny e il via libera alla missione europea Aspides nel Mar Rosso. Ecco, adesso le chiacchiere e i grandi progetti, per il momento senza soldi, come il Piano Mattei stanno a zero. La presidente del Consiglio dovrà dimostrare fino in fondo che le sue ambizioni di leader internazionale hanno vere radici occidentali, ben piantate a difesa dell’Europa.
Non c’è più spazio per ambiguità quale il flirt politico con Viktor Orbán. Mentre a Bruxelles si sta varando il tredicesimo pacchetto di sanzioni contro Mosca, nell’anniversario dell’occupazione russa dell’Ucraina, Budapest accusa l’Unione europea di essere affetta di «psicosi bellicista», obbediente solo a Washington. Continuare a corteggiare il premier magiaro, l’unico a non dire una parola sulla morte di Navalny, affinché entri nel gruppo dei Conservatori è diventato insopportabile.
Da von der Leyen, ieri indicata dai Popolari Spitzenkandidat (candidata per la guida della prossima Commissione), è arrivato un messaggio chiaro: la cosa più importante per l’Europa è la democrazia, lo Stato di diritto e la pace. Il compito di questa campagna elettorale, ha spiegato von der Leyen, è chiarirlo ai nostri avversari, a Putin e ai suoi amici. E li ha indicati in Marine Le Pen, Geert Wilders, Alternative für Deutschland «e altre forze estreme che ostacolano la democrazia in Europa, che vogliono distruggere l’Europa». Non cita espressamente Orbán, ma il messaggio contro l’ungherese è chiaro. Più esplicito è stato invece, in una recente intervista, il leader del Partito Popolare Manfred Weber. Gli avversari, amici della Russia, sono gli alleati di Matteo Salvini, che ieri sera avrebbe dovuto bruciare la maglietta con l’effige di Putin nella piazza del Campidoglio. Avrebbe dovuto bruciarla con una delle fiaccole che hanno ricordato Navalny. Ma l’ipocrisia è sovrana.
Il G7 è la grande occasione di Meloni per prosciugare gli angoli dello stagno di destra, fare luce nelle zone d’ombra, senza l’enfasi nazionalista usata alla presentazione della presidenza italiana. Non c’è bisogno di dire che l’Italia dimostrerà di essere «ancora capace di tracciare la rotta». A tracciare il solco non è un solo Paese né un governo, tra l’altro sostenuto dalla Lega che non ha ancora stracciato il patto con Russia Unita. A parte l’espressione infelice da ventennio mussoliniano (è l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende), sarebbe il caso di riempire di fatti i suoi obiettivi, di soldi il Piano Mattei per l’Africa, di munizioni l’Ucraina. Potrebbe fare sua la proposta di +Europa, rilanciata ieri su Repubblica da Andrea Romano, per la confisca di trecento miliardi di dollari della Banca centrale russa, detenuti in Europa e negli Stati Uniti. Fino a dove può spingersi la presidente del Consiglio italiana e quanto profondo sarà il suo solco per la sicurezza occidentale? Il tempo dei proclami e della campagna elettorale è già finito.