Geometrie del lavoroGiornate più brevi e venerdì liberi, gli italiani sognano le settimane corte

Per due occupati su tre, la priorità è lavorare meno. Anche i metalmeccanici chiedono una riduzione dell’orario nel nuovo contratto. E i seminari per i manager sul tema fanno il pienone. Le sperimentazioni in atto, da Lamborghini a Sace, dimostrano che non servono nuove leggi. Ma non esiste un modello unico per tutti

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I seminari sulla settimana corta per manager e imprenditori sono sempre più frequenti e spesso fanno il pienone. I metalmeccanici, tra le richieste per il rinnovo del contratto, hanno inserito pure la riduzione dell’orario di lavoro settimanale. Ma i bancari, al momento, sono gli unici a esser riusciti a spuntare un taglio da 37,5 a 37 ore nell’ultimo Ccnl. Dopo i casi di Lamborghini e Luxottica, che hanno aperto le porte della flessibilità oraria anche nelle fabbriche, le aziende italiane (soprattutto le grandi) si chiedono sempre più se e come poter sperimentare la rimodulazione delle ore di lavoro. Anche nell’ottica di attirare i sempre più introvabili lavoratori giovani con profili tecnici e specialistici. I progetti pilota, dalla Germania alla Repubblica Dominicana, dal Regno Unito alla Spagna, occupano i titoli dei giornali. E l’interesse è alto. D’altronde. secondo l’ultimo report di Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, per il 67,7 per cento degli occupati italiani la priorità è lavorare meno.

Quattro anni dopo l’esperienza generalizzata dello smart working fatta durante la pandemia, il mondo del lavoro vive il divario tra chi può godere almeno di qualche giorno di flessibilità e chi, a causa della tipologia delle proprie mansioni, è invece costretto alla presenza e a timbrare il cartellino. «Nell’ultimo seminario tenuto sul tema, c’erano oltre trecento iscritti», racconta Luca Failla, avvocato esperto di diritto del lavoro. «La settimana corta può rappresentare una forma di flessibilità e di maggiore conciliazione vita-lavoro anche e soprattutto per chi non ha accesso al lavoro agile».

Le aziende italiane si stanno muovendo in maniera autonoma. La prima a partire è stata Intesa Sanpaolo, ormai più di un anno fa. Poi se ne sono aggiunte altre, soprattutto nel mondo tech e digitale. E la settimana corta è entrata anche nell’orbita del settore pubblico, con l’accordo sottoscritto da Sace, prima partecipata in Italia a sperimentare una nuova organizzazione del lavoro su quattro giorni, scegliendo qualsiasi giorno per il riposo in base alle esigenze individuali. Ma «le sperimentazioni avviate da Lamborghini e Luxottica sono la grande novità, perché mostrano che la flessibilità può essere applicata non più solo sul terziario e ai servizi, ma anche nel manifatturiero, sulla linea di produzione», spiega Failla.

Le due aziende hanno fatto da apripista. E a fine gennaio anche Filograna, azienda del calzaturiero pugliese con duecento dipendenti, ha sottoscritto un contratto integrativo per applicare la settimana di quattro giorni. Il tutto viene fatto sempre in via sperimentale e su base volontaria con possibile estensione del modello, in caso positivo, al resto della platea dei lavoratori interessati. «Siamo in una fase di sperimentazione, che comporta anche una certa reversibilità. Se non va bene, si torna indietro. O si modificano le modalità previste», dice Failla. Perché, come dimostrano i progetti pilota in corso, non esiste un modello unico di settimana corta. Esistono infinite architetture di settimana e orari flessibili, adattabili al tipo di produzione e soprattutto al numero dei dipendenti.

In alcuni casi, l’orario settimanale resta invariato, ma viene distribuito su soli quattro giorni anziché cinque. In questo modo, si lavora più ore al giorno per un numero prestabilito di settimane. In altri casi, l’orario giornaliero non varia, ma si lavora solo per quattro giorni, per cui il monte orario si riduce. Ma non tutte le settimane durano quattro giorni e ci si accorda prima, in base alle esigenze delle aziende, sulla alternanza tra settimane corte e lunghe. «Per le imprese con numeri alti di dipendenti si può garantire un numero maggiore di settimane corte, per quelle più piccole i margini di manovra sono più bassi, ma comunque si può fare», assicura Failla.

L’accordo di Lamborghini prevede ad esempio l’alternarsi di una settimana da cinque giorni e una da quattro per il personale che lavora su due turni e turno centrale. Mentre per chi lavora su un sistema a tre turni si alternano una settimana da cinque giorni e due da quattro.

In alcuni Paesi, come ha fatto il Belgio nel 2022, sono state scritte leggi ad hoc per applicare la settimana corta. Ma in Italia la settimana corta si può fare anche senza modificare le norme. La legge 66 del 2003 sull’orario di lavoro aveva già aperto alla possibilità di una diversa distribuzione degli orari. Quello che serve sempre è un accordo con i sindacati, con adesione dei dipendenti su base volontaria, senza costrizioni dall’alto. La settimana di trentadue o trentasei ore non è obbligatoria: chi vuole la sceglie.

Il tutto, ovviamente, non deve impattare sulla retribuzione. L’unica negoziazione “economica” con i sindacati riguarda i permessi retribuiti del lavoratore. «Con la riduzione dell’orario, i permessi retribuiti previsti nei contratti collettivi vengono in parte assorbiti», spiega Failla. «E poiché i permessi sono diritti disponibili del lavoratore, non basta l’accordo sindacale, occorre che il lavoratore dica di essere interessato a entrare nel programma di sperimentazione».

L’utilizzo dei permessi come moneta di scambio negli accordi sulla settimana corta non sempre piace ai sindacati, in realtà. In alcuni casi, le sigle sindacali hanno provato a mantenere inalterati i permessi, slegandoli dall’orario. In altri, i permessi assorbiti sono stati controbilanciati dall’introduzione di nuove indennità e forme di welfare.

Le sperimentazioni in atto servono, di fatto, a capire se queste formule sono convenienti, per le imprese e per i lavoratori. «La scommessa è che se io ti faccio lavorare quattro giorni su cinque, tu mi garantisci nei quattro giorni una produttività almeno non inferiore a quella dei cinque», dice Failla. «In questo modo, la questione della produttività diventa anche un tema che non interessa solo alle aziende ma anche ai lavoratori».

Quello della produttività del lavoro, in realtà, in Italia è un nervo scoperto. Nelle classifiche Ocse sulle ore lavorate in un anno siamo solitamente nella parte alta della graduatoria. Eppure, negli ultimi vent’anni, nonostante l’aumento delle ore passate al lavoro, l’Italia ha registrato uno -0,3 per cento di produttività all’anno, contro una media Ocse del +0,3 per cento. Ore di lavoro e produttività, insomma, non sono correlate.

Nella sperimentazione avviata da Intesa Sanpaolo finora ha chiesto di poter fare la settimana corta il settanta per cento di coloro che potevano accedere al programma. Alla Teamsystem di Pesaro, azienda che sviluppa soluzioni digitali per le imprese, da maggio 2023 è stato raggiunto il settantacinque per cento di adesioni, nonostante per gli stipendi più alti sia prevista una riduzione del salario. Luxottica partirà con la sua sperimentazione ad aprile 2024, offrendo venti giornate libere l’anno. Mentre al centro direzionale di Torino di Lavazza già lo scorso anno hanno introdotto la formula del venerdì breve per novecento persone: si esce tre ore prima per quindici giorni, da maggio a settembre. I dipendenti hanno apprezzato, con una adesione oltre il novanta per cento. E ora l’esperimento sarà ripetuto.

Si aspettano, a questo punto, i primi dati per definire gli impatti di questo nuovo modo di lavorare, che tiene insieme la sostenibilità delle aziende, la produttività e la qualità della vita dei lavoratori. E presto i primi dati potrebbero arrivare. La sperimentazione di Sace, infatti, sarà monitorata e analizzata dall’Osservatorio smart working della School of management del Politecnico di Milano, in partnership con Microsoft. Servirà a dare delle risposte sui sistemi sperimentati, per migliorarli, rimodularli e magari estenderli a un numero sempre maggiore di lavoratori.

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