Nonostante sia il Continente più vecchio e, anche per questo, più lento economicamente, l’Europa comunque evolve, cambia e si trasforma. E come in ogni trasformazione ci sono i vincitori e i vinti. No, l’Italia non è tra i primi, questo lo sappiamo bene, ma non è solo questione di nazioni, quanto di macro-aree, di regioni, di città e province. C’è un aspetto che salta subito all’occhio, esaminando le differenze nella distribuzione del potere d’acquisto nella Ue e nei Paesi candidati all’ingresso nella Ue tra 2000 e 2022: le regioni sopra la media europea sono diminuite, a fare parte di questo club dei più ricchi è rimasta una fascia piuttosto densamente popolata ma ristretta che va da Nord a Sud, dal Lazio alla Lapponia svedese, passando dal Settentrione del nostro Paese, dalla Germania occidentale, ma non tutta, alla Danimarca e, appunto, alla Svezia.
C’è poi anche l’Irlanda, che ha vissuto un boom senza precedenti in questi anni, e una serie di isole, che corrispondono soprattutto alle capitali, grandi metropoli dell’Est come Varsavia, Vilnius, Bratislava, Zagabria, Bucarest, Budapest, ma anche Berlino e Parigi, nonché Madrid e Lisbona, che si differenziano nettamente dalle aree intorno, le quali hanno performance economiche peggiori sia della capitale che della media Ue.
In ventidue anni sono molte le aree che sono scivolate al di sotto di questa media, soprattutto a Ovest, e si tratta in quasi tutti i casi di regioni meno densamente popolate, della provincia, insomma. L’esempio più lampante è la grande provincia francese, l’area della Loira, il Centro, l’Aquitania, la Borgogna, la Champagne, in cui il potere d’acquisto era tra il quattro e il nove per cento superiore a quello della Ue e oggi è tra il dieci e il dieci e il venti per cento più basso. Beninteso, anche Parigi ha perso punti, ma partiva da redditi del novanta per cento maggiori della media e oggi rimangono del sessantatre per cento più alti.
In Spagna, mentre hanno resistito bene i Paesi Baschi, sono scivolati sotto la soglia media l’Aragona e la Catalogna, che ha vissuto un declino peggiore di quello di Madrid. Anche qui come in Francia la capitale rappresenta sempre più il principale polo di attrazione di un’economia fondata sui servizi avanzati, sulla finanza, facilmente e convenientemente concentrabili in un grande centro urbano, mentre è al tramonto quel modello fatto di industria diffusa sul territorio che per decenni ha segnato la fortuna di molte aree, anche in Italia. Nel nostro Paese sono transitati nella parte più povera d’Europa Marche, Abruzzo e Umbria. Quest’ultima regione è passata dall’avere un potere d’acquisto del ventuno per cento più alto della media Ue a uno del diciassette per cento più basso.
A Est praticamente ovunque ci sono dei miglioramenti, anche vistosi: nell’Ovest della Romania, dove si trova Timisoara, per esempio, nel 2000 i redditi erano del settantatré per cento più bassi di quelli europei, ora solo del ventidue per cento. Si tratta di quella convergenza dell’Est Europa, sempre meno lontana dal benessere dell’Ovest, che era l’obiettivo dell’allargamento del 2004 e che è certamente una buona notizia. Da un lato ad avere visto gli incrementi più importanti sono state le aree che a inizio secolo risultavano essere le più povere, quelle del Sud Est del Continente, appunto, e dall’altro a essere state caratterizzate dai maggiori peggioramenti sono state alcune di quelle che erano sopra la media, come le italiane Lazio e Umbria.
Tuttavia, sempre in Romania, è solo Bucarest che spicca come centro di attrazione economica, con il suo potere d’acquisto addirittura del settantasette per cento maggiore della media Ue. Non si deve fare l’errore di dimenticare che la convergenza dell’Est nasconde quella che anche in queste aree è una concentrazione non solo del potere economico, ma anche di quello politico e culturale nelle grandi città, destinate ad attirare popolazione, in particolare i giovani, soprattutto quelli più istruiti, le nuove imprese, gli investimenti esteri. Lo stesso avviene in Ungheria e nei Paesi Baltici, mentre in Polonia perlomeno i centri di sviluppo sono più di uno.
La gran parte delle regioni dell’Europa orientale che hanno visto un miglioramento non sono infatti riuscite a raggiungere il potere d’acquisto medio europeo, fatta eccezione, come si è detto, per le capitali come Bucarest. Nel frattempo sono state molte di più le regioni che erano più ricche della media stessa e che sono diventate più povere, come Umbria, Marche, Abruzzo, Alsazia, Aragona, di quelle che avevano redditi inferiori al livello medio Ue e sono passate al di sopra.
È per questo che oggi solo il 23,5 per cento delle regioni ha un potere d’acquisto tra il cento e il centocinquanta per cento della media, contro il 36,1 per cento del 2000, mentre sono scese dall’8,3 per cento al quattro per cento quelle che ne hanno uno che è tra una volta e mezzo e il doppio. Viceversa sono sempre di più quelle che si ritrovano tra la media e il cinquanta per cento della media, sono il 48,8 per cento contro il 34,9 per cento dell’inizio del secolo. Tra queste le porzioni di Est Europa lontano dalle capitali, che sono in crescita, ma non abbastanza, e la provincia italiana, francese, spagnola, belga, portoghese in declino. A queste si aggiungono quel 23,5 per cento che rimangono con un potere d’acquisto che è più basso di quello europeo di oltre il cinquanta per cento.
Tutto ciò è sintomo di una separazione tra città in crescita e provincia in calo demografico ed economico, che interessa tutta Europa, quella emergente e quella matura e si ripercuote sulla politica. Ovunque il gap ormai non è più tra regioni di sinistra e di destra, ma sempre più tra metropoli, liberal, progressista, e aree rurali, più conservatrici e spesso populiste, anche a causa del relativo declino economico. In tutto questo è giusto sottolineare un aspetto parzialmente positivo per l’Italia.
È vero, dal 2000 in poi la differenza tra il potere d’acquisto italiano e quello medio europeo è peggiorata, in media di venticinque punti in quindici anni. E il Nord Italia, che partiva da posizioni migliori ha anzi avuto performance ancora più negative di quelle del Mezzogiorno, con una discesa di quasi trenta punti, a dimostrazione che, ancora più del gap tra Nord e Sud, ad avere caratterizzato il nostro Paese è stato il suo declino complessivo, anche se forse se ne è parlato meno. Un declino che, però, dal 2015 è fortemente rallentato o si è interrotto. Nel 2022 il divario tra il potere d’acquisto europeo e quello italiano era lo stesso di sette anni prima, sia nelle regioni meridionali che in quelle settentrionali.
Che si sia trattato dell’effetto del rimbalzo post-Covid o rappresenta qualcosa di più strutturale? Quello che è certo è che anche l’Italia, come gran parte degli altri Paesi europei, deve affrontare il crescente divario tra città a campagna, che sta diventando rilevante quanto o più di quello tra Nord e Sud. È il divario che esiste tra due Italie sempre più lontane, quella, per esempio, del lavoratore specializzato di Milano, mediamente progressista e cosmopolita, e quella del solitamente più anziano, ma soprattutto più povero, impiegato/autonomo/pensionato che è nato e vissuto in provincia, con altre priorità e una visione del mondo sempre più distante. Sia l’Italia che l’Europa non possono avanzare se a trainarla è solo una parte, solitamente minoritaria, della società.