“Sting like a bee” è il primo lungometraggio del regista e fotografo pluripremiato LEONE, che assieme alla sua squadra di C41, casa di produzione e magazine di cui è Ceo e direttore creativo, ha dato voce ai giovani adolescenti che abitano la Valle del Trigno, fiume che divide l’Abruzzo e il Molise. Ad accomunarli è la ricerca di un posto nel mondo, i sogni in grande di chi è ancora piccolo e non è mai stato in piena vista, ma soprattutto, una grande passione per le Api Piaggio.
Attraverso i casting e un prologo in stile cinegiornale che si rifà a “Comizi d’Amore” di Pier Paolo Pasolini e “Along the Coast” di Agnès Varda, LEONE racconta i protagonisti e la realtà spesso sconosciuta di questi luoghi del Centro e del Sud Italia, grazie a un intreccio di voci e volti. A bordo delle loro Api, attraversiamo gli incantevoli paesaggi di questi paesi che hanno vissuto di agricoltura fino alla fine degli anni Settanta. La coltivazione delle percoche è la stessa che permette ad alcuni dei protagonisti di racimolare qualche soldo in vista dell’estate e, naturalmente, “pimpare” la loro Api.
Il film ci immerge nella dedizione di questi ragazzi, chiusi nei loro garage, persi nelle ore trascorse a lavorare insieme o in solitaria, a scherzare, discutere e a confrontare le loro abilità meccaniche e creative. Attraverso la cinepresa, il loro desiderio di essere protagonisti di un’avventura cinematografica si esaudisce. Con entusiasmo e impegno, si calano nei panni dei divi del grande schermo, ridendo degli inevitabili errori. Divengono attori di in un film che incrocia reale e documentario, affrontando temi sociali, le gioie e le insicurezze di chi ha quindici anni. Finché non arriva la fantasia a far vivere loro l’impossibile.
Il film fa riflettere sul concetto di Ape come microcosmo. Si percepisce nei ragazzi un profondo bisogno di spazi non solo fisici, ma anche simbolici ed emotivi, essenziali per creare legami significativi. Hai trascorso molto tempo con loro, che cosa c’è dietro questa esigenza?
«La nostra lente d’ingrandimento ha zoomato realtà personali che appartengono a una provincia italiana molto poco valorizzata, quella situata tra il Molise e l’Abruzzo. Quest’area, divisa da un fondovalle percorso dal fiume Trigno, è stata teatro di numerosi conflitti storici e data la sua posizione di confine le culture di queste due regioni si sono sviluppate in maniera molto simile. Per me, questo rappresenta un collegamento intrinseco con i piccoli mondi che abbiamo esplorato. Mondi attraversati da ragazzi sulle loro Api customizzate, simili ad alveari in cui gli adolescenti si uniscono per formare degli sciame, gruppi che offrono loro un’identità non solo collettiva, ma anche individuale. Questo è il concetto diventato centrale nel nostro racconto: “Le Api hanno bisogno del gruppo, il gruppo ha bisogno delle Api”. Con questa frase, abbiamo voluto creare una seconda metafora, quella che unisce l’ape-insetto al mezzo di trasporto».
C’è un forte legame tra i ragazzi e l’Ape, che emerge nella cura che gli dedicano e nell’assenza quasi totale di device tecnologici nel film. L’unica eccezione sembra essere quando si riuniscono per guardare tutorial su YouTube su come personalizzare le loro Api…
«Effettivamente, il punto di partenza per la stesura della sceneggiatura del film è stata proprio la relazione sana e genuina che i ragazzi vivono con la customizzazione delle loro Api, una vera passione che li distacca da vari vizi, inclusi quelli digitali. Questa passione li porta a impegnarsi in attività pratiche, allontanandoli dai mondi virtuali di TikTok e degli altri social media. Tutto questo porta ad una contro-narrazione. Osserviamo fino a che punto i giovani creano distanza da uno stile di vita meno autentico, giocando con elementi tangibili, sporcandosi letteralmente le mani».
Ho notato che, quando chiedevi ai ragazzi quale ruolo avrebbero voluto nel film, tutti aspiravano a essere ’il protagonista’, ma sembravano avere difficoltà a definire precisamente il tipo di personaggio. Come interpreti questa risposta, allo stesso tempo generica e significativa?
«Nonostante il divario generazionale di quasi trent’anni, avendo vissuto anche io negli stessi luoghi, mi identifico fortemente in questi ragazzi e capisco il loro modo di pensare. La ricerca del protagonismo, a mio avviso, è una risposta all’insicurezza di distinguersi all’interno del gruppo. Gli adolescenti tendono a avere schemi di pensiero più semplici di quanto si possa immaginare. Durante le riprese, stavo leggendo “La mente adolescente” di Daniel J. Siegel, che sottolinea come nei primi quindici anni di vita si formi tutta la nostra struttura di pensiero, la stessa che poi in età adulta cerchiamo di modellare e affinare. Banalmente, credo che il desiderio di essere protagonisti emerga come una modalità per affermarsi nel gruppo. Questo bisogno di accettazione è fondamentale, soprattutto per coloro che provengono da contesti familiari complessi; il gruppo diventa il luogo dove un ragazzo ritrova la forza e l’autostima. Riflettendo sulla mia adolescenza, ricordo che anche per me era lo stesso».
La sceneggiatura è stata scritta in collaborazione con Giorgia Pedini e Nicole Salotti. I ragazzi hanno affrontato i casting, senza sapere inizialmente che quelle esperienze sarebbero diventate centrali nel film. A un certo punto, il film evolve e da documentario diventa opera di finzione, spalancando le porte alla fantasia. Come avete gestito questo passaggio?
«Non abbiamo mai ingannato i partecipanti, nonostante i primi venti minuti del film possano far pensare il contrario. Fortunatamente, il pubblico ha oltrepassato questa prima impressione, e il film sta riscuotendo un successo internazionale proprio grazie alla sua struttura narrativa, ispirata ad altri documentari d’autore, come quelli di Pasolini. Dopo il casting, mi sono fermato e mi sono chiesto quali dei ragazzi che avevo conosciuto, avrei voluto raccontare in maniera più approfondita, scegliendo infine Martin, Ludovica, Manuel e la famiglia Cilli. La decisione di non adottare un linguaggio puramente fittizio ma di mescolare finzione e realtà ha portato a una forma finale ibrida che nel panorama italiano conserva la sua originalità. Credo che la vera forza del film sia la sua autenticità. Le storie si sono sviluppate in modo progressivo, parallelamente alla sceneggiatura, scritta basandosi sul materiale raccolto nel corso di quasi due anni».
Avendo girato il film su pellicola, avevate a disposizione una quantità limitata di materiale…
«In pellicola giri semplicemente meno. Prima, pensi bene ai take che vuoi. Considera che per ogni azione sono stati girati due o tre take. Visto che sono una persona molto curiosa, che si distrae molto facilmente, l’analogico mi è servito a concentrarmi. Infatti penso che girerò anche il mio prossimo film in pellicola».
Fotografo, editor, insegnante: c’è un elemento che collega queste professioni diverse al tuo modo di fare cinema?
«La questione di bilanciare carriere così diverse è stata spesso al centro delle mie riflessioni. Tuttavia, la mia curiosità e il desiderio di esplorare nuove opportunità hanno sempre avuto la meglio. Dopo una pausa dall’insegnamento, l’invito a collaborare con il Polimoda di Firenze ha riacceso questa passione. Mi lascio guidare dall’istinto e dalla casualità, con un approccio ispirato ad una considerazione che Gianni Canova fece dopo aver visto uno dei miei primi corti. Mi disse: “La cosa che amo di te è che casualmente metti insieme delle vicende e sempre con casualità sviluppi i tuoi bisogni”. È stato il caso, anche quando mi sono imbattuto in questi adolescenti con la passione per le Api e ho scelto di raccontare le loro storie, altrettanto casuali. Perché loro si svegliano la mattina e non sanno come sarà la loro giornata. E questo è anche il mio metodo. Seguo questo flusso di casualità, motivo per il quale il film è, nella sua accezione positiva, una scheggia impazzita».
In alcune scene, sei a bordo dell’Ape insieme ai ragazzi. Lo spazio è limitato, c’è una cinepresa puntata su di loro, mentre ricevono domande da un adulto. Credi che sia la presenza della cinepresa o la tua voce ad averli incoraggiati ad aprirsi?
«Credo che entrambi gli elementi abbiano giocato un ruolo fondamentale. Mi occupo di regia da quando avevo vent’anni e il tempo mi ha insegnato che lavorare con attori non professionisti richiede una particolare sensibilità. La sicurezza che possono percepire grazie alla presenza fisica accanto alla cinepresa è cruciale. Anche Matteo Garrone e Paul Thomas Anderson ribadiscono sempre l’importanza di essere fisicamente vicini ai propri protagonisti, per infondere in loro fiducia. Preferisco evitare di creare distacco e, allo stesso tempo, non sono incline a condurre casting formali o a richiedere prove. Invece, mi piace privilegiare la spontaneità e l’improvvisazione nelle loro reazioni».
Nel finale, nessun messaggio moralizzante, qualcosa che spesso emerge quando si tratta di tematiche adolescenziali…
«In questo viaggio, noi ci siamo limitati a essere accompagnatori. Il mio contributo, in termini di scrittura, è stato minimo; mi sono concentrato più che altro a delineare un percorso, lasciando che le storie si sviluppassero in modo naturale. Questa struttura ha conferito al film un significato sociale, tanto da essere selezionato dal Festival dei Popoli, uno dei più antichi d’Europa».
Secondo te in che modo in età adulta il nostro desiderio di creare un microcosmo evolve o si disperde?
«Il desiderio non si disperde, bensì si trasforma in produttività, che si manifesta non solo nel lavoro ma anche nello sviluppo di un nucleo familiare. Le Api sono estremamente produttive, e questa produttività è intrinseca anche nell’essere umano, a prescindere dalle ideologie capitaliste o comuniste. Certo, esistono culture più inclini alla riflessione e alla filosofia esistenziale, ma la produttività rimane un denominatore comune».
La creatività conserva un ruolo in questo processo produttivo?
«Considerando che la matematica può essere vista come una delle discipline più filosofiche mai create, direi che sì, la creatività è in qualsiasi cosa».