Silvio Viale, noto ginecologo e politico torinese, diventato famoso per avere portato in Italia la RU486 e praticato per primo l’aborto farmacologico nel nostro Paese, è stato accusato di violenza sessuale da quattro giovani pazienti e la procura torinese, a seguito della denuncia, ha disposto la perquisizione del suo studio.
Più o meno negli stessi giorni Federico Vercellone, noto filosofo e cattedratico torinese, è stato sospeso per un mese dall’insegnamento e dallo stipendio da parte dell’Università, per avere molestato due dottorande e non è neppure chiaro se contro di lui sia in corso un’indagine giudiziaria (l’interessato sostiene di no).
Ad accusare Viale di visite troppo invasive e espressioni a sfondo sessuale sono quattro donne che, stando alle notizie diffuse dalla stampa, non si conoscevano e che sono venute in contatto attraverso “Non Una Di Meno”, movimento cosiddetto transfemminista da sempre in pessimi rapporti con Viale, accusato di essere un parassita della causa delle donne e di rimanere opportunisticamente attardato su posizioni di retroguardia: ad esempio di non ritenere l’obiezione di coscienza sull’interruzione di gravidanza né una scelta illegittima, né un problema rilevante rispetto ai ritardi e alle inefficienze del sistema sanitario nell’assicurare alle donne l’accesso tempestivo all’Ivg.
Ad accusare Vercellone di espressioni sconvenienti e lascive, oltre alle due dottorande, ci sono le tante e anonime “voci di dentro” dell’Ateneo, che la “Rete 8 marzo”, un gruppo di docenti, studentesse e ex studentesse diffonde per, come usa dire, alimentare il dibattito sulla violenza di genere.
Di questi due fatti rileva oggi non la sostanza, che rimane eventuale – si parla di violenze o molestie che in un caso non sono state affatto dimostrate e nell’altro, a quanto pare, neppure denunciate all’autorità giudiziaria – ma l’alone mediatico delle accuse che, con il supporto dell’indignato collettivo di stanza nel cuore di ogni progressista italiano, diventa preventivo e irrevocabile giudizio, secondo lo stesso procedimento che ha moralmente autorizzato tre giudici del Tribunale di Firenze a vergare la sentenza di condanna di un uomo accusato di maltrattamenti in famiglia ben prima che il processo avesse termine e a dimenticarla improvvidamente nel fascicolo processuale, dove l’ha ritrovata il difensore dell’imputato, sollevando uno scandalo, che non è stato ovviamente percepito come tale da nessuno, se non dalla Camera Penale fiorentina.
La vicenda che coinvolge oggi Viale e Vercellone, ammesso e non concesso che per uno o per entrambi abbia davvero un seguito in Tribunale, non ha chiaramente niente a che fare con la giustizia come amministrazione della legge penale e il suo corredo mediatico non ha neppure nulla a che fare con l’informazione giudiziaria.
È semplicemente una pagina di quella contro-storia universale cospiratoria che vede la violenza maschile non come fenomeno da reprimere e delitto da punire, cioè come effrazione di un ordine di diritto legittimo, ma come presupposto della sua stessa malatissima legittimità.
Il codice penale, come qualunque codice in senso lato linguistico, è considerato inappropriato perché proprio nella sua oggettività storica e politica – dal modo di definire i reati a quello di riconoscere i diritti – incorpora il paradigma patriarcale, che contrassegna l’intera organizzazione sociale, dalle relazioni tra i sessi ai rapporti di produzione.
Come le medicine alternative partono dal presupposto che la vera malattia sia la medicina tradizionale, il femminismo alternativo parte dal presupposto che il corpo delle donne tutelato dalla legge penale sia già un corpo violato e che l’accertamento delle responsabilità degli accusati e degli imputati sia un’altra forma di “violenza del sistema”.
In questo modo, si può liquidare come vittimizzazione secondaria la pura e semplice applicazione dei principi del giusto processo e della parità tra accusa e difesa, che nega alle donne accusatrici quella fede privilegiata, che è ritenuta la condizione indispensabile per il ristabilimento dei rapporti di potere compromessi da un quadro di diritto tutto al maschile.
Un’altra ovvia conseguenza del progressivo scivolamento verso la transgiustizia di genere è quella di divellere i confini tra la violenza e l’offesa, tra la profanazione del corpo e l’oltraggio dell’identità, tra l’incolumità della persona delle donne e l’intangibilità di un simulacro idolatrico femminile totalmente disincarnato, in cui il vissuto e il presagito, la realtà e la rappresentazione si rovesciano di ordine e di priorità e lo stesso fondamento corporale della differenza di genere diventa il riflesso di una tassonomia maschilista, di un pregiudizio naturalistico o di un approccio proprietario.
I commentatori sono insorti contro le parole di Viale e di Vercellone, che addebitano la violenza «percepita» a un possibile equivoco: equivoco ben più che probabile, vista la sostanziale inconciliabilità dei registri linguistici con cui si parla alle donne del corpo delle donne (mentre le si visita, mentre si scherza con loro, mentre si prova a sedurle…) nel coté politico-culturale in cui la guerra contro le parole è diventata prevalente su quella contro la violenza e agli stupri antisionisti di Hamas, a proposito di “Non Una Di Meno”, si riconosce una scriminante politica, mentre guai a perdersi una schwa nella lotta transfemminista intersezionale contro i vocabolari del potere capitalistico.
La spiegazione razionalmente logica, anche se ovviamente difensiva, dei presunti reprobi è stata insomma liquidata da chi ha scelto di commentarla come un’ulteriore offesa alle vittime, perché due cose di fronte a queste accuse ormai non si possono più fare: accettare che gli accusati si difendano e che lo facciano distinguendo il peccato e il reato, i comportamenti percepiti come molesti perché indesiderati o sgraditi e il delitto contro la libertà sessuale della persona offesa.
Il paradigma vittimario che la rivoluzione transfemminista vuole imporre come giusta contro-discriminazione di genere impone che la colpevolezza dell’accusato sia presunta e la sua innocenza vada dimostrata, con una classica inversione dell’onere della prova. Trattandosi di un modello di giustizia penale tipicamente inquisitoriale, è pure coerente che i presunti colpevoli ne escano riabilitati solo se superano l’ordalia del fuoco per loro approntata da giornali e tv.
Ci sono perciò ottime probabilità che i reati di genere e le magnifiche sorti e progressive della rivoluzione transfemminista facciano alla dignità e alla civiltà del diritto penale liberale molto peggio del male che gli ha fatto l’emergenzialismo in materia di terrorismo e criminalità organizzata. Non si tratta, anche in questo caso, di aspettare i processi e le sentenze, ma solo di adeguarle alle aspettative del pubblico, che di fronte ad accuse così gravi giudica ogni riserva di diritto come denegata giustizia.
Andrebbe fondato il “Non Un Innocente Di Meno” per le vittime assolte o condannate, sommerse o salvate in questa palude di pregiudizio e malafede.