Se permettete parliamo di uno che non avete mai sentito nominare, e quindi non comincerete qui. Il tizio di cui non faremo il nome ha, come tutti, una telecamera nel telefono.
È giovane, è spigliato, è mezzo napoletano, cioè di quella genia che sa stare sul palcoscenico (a Napoli e in Inghilterra non esistono attori cani). Fa quello che in questo secolo fa chi ha quei vantaggi: accende il telefono, e ne fa un mestiere.
Ogni tanto l’algoritmo cinese mi propone i suoi video, e – sebbene la sua vita universitaria sia l’ennesima prova che le mie tasse pagano l’istruzione superiore a gente che dovrebbe ripetere le scuole medie – lo trovo divertente.
Come me evidentemente altri, e quindi va come va in questi casi: che le aziende iniziano a pagarlo per esporre i loro prodotti, a pagarlo per comparire in occasioni pubbliche, a pagarlo per partecipare al meccanismo disperato che è il marketing in questo secolo.
Maggiore esposizione comporta maggior numero di vite di silenziosa disperazione che s’intrattengono scrutando la tua e commentandola. Accade da sempre, a rivederlo oggi “Io e Napoleone” (2006) è un film sugli influencer: quando le folle lo guardano, dice il Napoleone in esilio al giovane scrivano, «Nei loro occhi si riflette l’immagine di loro stessi e della loro ansia di riscatto».
Solo che – l’ho già detto ieri, lo so – Napoleone, ma pure Salinger, ma pure Michael Jackson avevano altro, oltre alla celebrità e a quel suo portato che è il fatto che gente che non conosci abbia un’opinione su di te: battaglie, imperi, libri, dischi, balletti, cotillon.
Il tizio con la telecamera nel telefono cos’ha? La parlantina, certo, ma quella ce l’hanno in troppi e soprattutto non vale se è gratis. Vale se ci riempi teatri a pagamento: se sei, chessò, Baricco. Vale se parti con la parlantina gratis e poi la usi per imparare un mestiere e fare qualcosa: se sei, chessò, Mastandrea. Ma se la tua parlantina non mi fa comprare un biglietto del cinema o del teatro, ma solo considerarti la giusta compagnia quando prendo a ditate il telefono sul cesso, il tuo, figlio mio, non è un mestiere.
Questa cosa, se uno che si agita davanti alla telecamera del telefono è intelligente, la sa già; e, se anche volesse non saperla, ci sono le folle là fuori cui non par vero di porre fine via social alla silenziosa disperazione rumoreggiando. Prendere la Bastiglia non se ne parla (troppa fatica), ma la mia rivoluzione sarà dire io a Tizio che è un bluff, uno senza talenti, un poveretto.
Naturalmente qualunque persona con neuroni in numero superiore a due sa che i commenti dell’internet sono, appunto, commenti dell’internet: già solo lasciarli fa di te un disperato che non vale la pena ascoltare, che mai potrà avere niente d’intelligente da dire, che è troppo smanioso di essere filato per essere interessante.
L’altro giorno mi è comparso un tweet, o come si chiamano adesso, di particolare stupendezza. Un tizio chiedeva aiuto perché la moglie aveva ricevuto una diffida legale dopo aver detto a non so bene chi che faceva parte del sistema (credo fossero storie di vaccini e relative ideologie: se dovessi ritenere Twitter un campione statistico, penserei che l’Italia è piena di gente buffa che, di qualunque cosa si parli, interviene dicendo «e allora noi che senza greenpass non potevamo andare da nessuna parte». Gente buffa e fortunata, ché per rimuginare tre anni sul greenpass non devi aver mai avuto un problema serio).
Non mi dilungo sul delirio legale che ne seguiva, tra chi gli suggeriva di controdenunciare il diffidante e chi individuava reati a casaccio: il rapporto fantasioso dell’internet col codice penale varrebbe un saggio. Il dettaglio interessante è che il tizio a un certo punto fotografava la diffida, che conteneva il commento contestato.
Commento che ovviamente era più offensivo di quanto riportasse lui (l’umanità è seriamente convinta che la diffamazione sia un concetto astratto e io possa darti del servo senza conseguenze in tribunale: forse dovremmo pensare a delle ore di codice penale obbligatorie negli anni di scuola).
Ma, soprattutto, commento che era stato lasciato sulla pagina fan di una ballerina. Esiste una persona normodotata che si metta a discutere su una pagina fan? Già il fatto di dirti “fan” di qualcuno non dovrebbe costituire attenuante psichiatrica?
Sempre su Twitter, c’è un cancelletto apposito che identifica un gruppo di disperati che s’incaricano di dire al mondo che truffatori siano gli influencer. Sabato si chiedevano quanto il Corriere avesse pagato Chiara Ferragni, per dire quanta contezza hanno di come funzioni il mondo, per dire delle mani in cui è la critica culturale. (Ma chi mai s’affiderebbe ai social per la critica culturale, diranno i miei piccoli lettori. Temo più di quelli che sono disposti a leggere letteratura in merito: quando penso a quanto non ha venduto il mio libro su questi meccanismi di cui tutti vogliono parlare ma che nessuno vuole studiare, mi viene da piangere. Fine della parentesi patetica).
Insomma, i carneadi incapaci di distinguere tra Tizio con una telecamera sul telefono e Lady Gaga s’incaricano di significare a Tizio tutto il loro disprezzo. Poiché Tizio non è Lady Gaga né Salinger né Napoleone, legge i commenti. Legge i commenti e soffre, perché suo padre è emigrato da Napoli a Torino, e lui lo sa com’è fatto un lavoro vero, sa cosa sia la fatica, è abbastanza postmoderno da essere un maschio che si mette lo smalto alle unghie ma non abbastanza da accettare serenamente di passare per uno sfaccendato che usufruisce di quello schema Ponzi che è la visibilità.
In più ha venticinque anni, non è che ci si possa aspettare troppo dalla sua corteccia prefrontale a stento formata. E quindi si mette lì e spiega che vero lavoro sia il suo, che lavoro faticoso sia il suo, che giornate lunghe siano le sue, e che l’operaio nel cantiere non reggerebbe mezza giornata delle sue. È interessante che, mentre muoiono di incidenti sul lavoro a centinaia, si possa dire una cosa del genere senza che scoppi un putiferio. Se Tizio si fosse paragonato a una donna uccisa dal marito, se lo sarebbero mangiato: per essere scandalosa pietra di paragone non basta stare in cronaca nera, bisogna anche essere nella pagina giusta.
Tuttavia, pur essendoci fortunatamente state risparmiate le grida alla cancellazione dell’oratore goffo, la goffaggine è evidente, e conferma la regola elisabettiana che era già morta di trascuratezza collettiva, morta ben prima di Elisabetta seconda d’Inghilterra: mai lamentarsi, mai scusarsi, mai dare spiegazioni.
Questi con la telecamera nel telefono sono diventati famosi senza addestramento, non hanno imperi da comandare, non hanno distrazioni dal loro ombelico, e quindi non riescono a tacere. L’unica che sapeva tacere era Chiara Ferragni, e da quando ha smesso non ne azzecca una. Possibile che i detentori minori di telefoni con telecamera non sappiano imparare dagli errori della maggiore?