La clamorosa vicenda degli accessi abusivi agli archivi digitali della Direzione Nazionale Antimafia, per cui sarebbero indagati un sottufficiale e un magistrato della Dna a danno di una serie di noti personaggi, merita qualche riflessione, oltre il chiasso interessato sollevato soprattutto dalla destra. Questo caso dovrebbe aprire gli occhi a coloro che strillano al «bavaglio» ogni qualvolta si fissano limiti e controlli più stretti per l’accesso alle comunicazioni e ai dati riservati dei cittadini. In realtà è facilissimo accedere ai dati che riguardano la vita privata di milioni di persone, può esserne capace anche un anonimo sottufficiale che può indagare nella vita di chiunque. Analogamente, un qualsiasi dipendente di una delle ditte esterne di cui vengono noleggiati i server per le intercettazioni può entrare in possesso di dati sulle comunicazioni e i rapporti personali tra privati.
Alla base di questa contraddizione ci sono una normativa del 2017 e un provvedimento dell’Unità di informazione finanziaria di Bankitalia del 2011, in base ai quali l’elenco di operazioni sospette di possibile riciclaggio confluiscono presso gli uffici del procuratore antimafia. Un vasto archivio che certamente servirà a combattere il crimine, ma costituisce anche una preziosa riserva di caccia per i cercatori di dossier.
Della estensione della vicenda si sa ancora poco, ma ciò che trapela e la sollecitudine con cui il procuratore di Perugia e il procuratore antimafia hanno chiesto di essere sentiti dal Copasir e addirittura dalla commissione Antimafia inviano segnali allarmanti. Non si tratta di un incidente, di dati trafugati da hacker introdottisi negli archivi digitali della pubblica amministrazione, ma di una spregiudicata attività di agenzia dentro le istituzioni, fornitrice di servizi particolari e vietati (informazioni su profili e dati riservati anche di cariche governative) gestita secondo l’accusa da un sottufficiale forse in accordo con un magistrato, in servizio entrambi presso la Dna. Secondo la prima ricostruzione degli inquirenti, gli illeciti sarebbero stati perpetrati in una zona grigia ai confini con quella legittima di intelligence e addirittura delle indagini giudiziarie alimentate con suggestioni farlocche.
Il caso più eclatante è quello del ministro della Difesa Guido Crosetto, la cui denuncia ha aperto il caso e di cui si sarebbero fatte oggetto di accertamento alcune consulenze con aziende di armamenti. Con lui altre personalità del governo attenzionate in coincidenza con l’assunzione degli incarichi. L’allarme di un presunto spionaggio ai danni della destra è solo una speculazione. In realtà tra i molti casi spicca un autorevole esponente del centrodestra, il senatore di Forza Italia e presidente della Lazio Claudio Lotito, il quale secondo quanto riportato dalla Verità è stato sentito come persona informata sui fatti in relazione a indagini che i funzionari indagati della Dna avrebbero illegittimamente sollecitato nei confronti del presidente della Federcalcio e suo storico rivale Gabriele Gravina.
Per una forse non casuale coincidenza, tutta Italia dopo la tempestosa partita Lazio-Milan ha potuto raccogliere la dichiarazione di guerra del senatore contro il numero uno del calcio. Lotito ha fatto capire che ciò che è avvenuto in campo, il disastroso arbitraggio di Marco Di Bello, non sia stato un incidente ma un attacco portato avanti dalla massima istituzione calcistica ormai priva di credibilità e senza alcuna imparzialità. Ha anche lasciato intendere che la causa di tale attacco sia nel ventilato progetto di una Superlega di serie A (su modello della Premier League) riservata ai club della massima divisione e gestita da loro con arbitri professionisti riuniti dentro una società imprenditoriale autonoma dalla Federcalcio. Curioso che il complotto adombrato da Lotito richiami vagamente ciò che è successo alla Juventus di Andrea Agnelli dopo il tentativo abortito di creare la Superlega europea.
Un caso a mezza strada tra lo spionaggio industriale e il dossieraggio politico, ma qui la sinistra c’entra ben poco. Così come poco ha a che fare con centinaia di altri casi di presunti accessi abusivi ai sistemi informatici, come quelli che riguardano alcuni protagonisti di una vicenda particolarmente rumorosa, il processo al Cardinale Angelo Becciu chiusosi a metà dicembre con una sfilza di dure condanne e confische contro una decina d’imputati.
Più che di un inesistente complotto contro il governo, l’affresco che si delinea rivela una radicata consuetudine al traffico di materiale per dossier attuato dalle fonti più disparate. Per il futuro è auspicabile che si trovino tutele più adeguate (ma è lecito dubitarne). Anche se ciò non servirà contro la radicata abitudine, incistata nella politica italiana a ricorrere ai dossieraggi, considerati una estensione del confronto tra i partiti. Appare chiara la volontà del governo Meloni di atteggiarsi a vittima per controllare il fenomeno che è particolarmente grave per tutte le forze politiche. Esso costituisce un ulteriore e preoccupante aspetto che può essere acuito dall’incombente riforma costituzionale che accentrerà numerosi poteri di controllo parlamentare e istituzionale in capo al premier. Un rischio da non trascurare.