Borsino wokeGli Ottentotti non vanno discriminati, a ricordarsi chi sono

Il termine incriminato è stato scovato nelle scene di Mary Poppins e definisce in afrikaans i nativi africani in modo dispregiativo. E la Disney obbedisce ai mullah del politicamente corretto

Negli stessi giorni in cui, in ossequio ai dettami del politicamente corretto, il British Board of Film Classification ha messo in guardia i genitori inglesi dai pericoli annidati nel “linguaggio discriminatorio” di Mary Poppins, retrocedendo la pellicola dalla categoria U (ossia universal, “per tutti”) a PG (parental guidance, che ne raccomanda la visione, per i minori di dodici anni, in presenza di un adulto), gli stessi dettami sono stati caparbiamente ignorati da Riccardo Muti, sul podio del Teatro Regio di Torino per una magnifica rappresentazione di Un ballo in maschera.

Il Maestro ha infatti ribadito il suo no incondizionato a qualsiasi ipotesi di edulcorare un passaggio del melodramma verdiano, là dove il Giudice pronuncia la frase: «S’appella Ulrica, dell’immondo sangue dei negri». Non solo, nel libretto di Antonio Somma, c’è la parola proibita, ma è pure accompagnata da un aggettivo (s)qualificativo. Muti aveva preso questa decisione già due anni fa, impegnato per la medesima opera a Chicago, nel cuore pulsante dell’ideologia woke: quel termine, aveva spiegato, «non rispecchia il pensiero di Verdi, tant’è vero che altri in scena difendono l’indovina Ulrica; Verdi mette alla berlina il razzismo, la crudeltà, l’ignoranza del Giudice». L’opera, va ricordato, è del 1859.

È invece del 1964 il cult movie della Disney incorso ora sotto i fulmini della cancel culture. L’addebito – se ne è ampiamente parlato nei giorni scorsi – consiste in una parola che nel film è pronunciata due volte dall’ammiraglio Boom: la prima, quando domanda al piccolo Michael Banks se stia partendo per «sconfiggere gli Ottentotti», la seconda, quando con il suo cannocchiale inquadra gli spazzacamini che ballano sui tetti con le facce coperte di fuliggine ed esclama: «Siamo stati attaccati dagli Ottentotti!». L’ammiraglio Boom, anche questo va ricordato, è un anziano rimbambito che spara cannonate per segnare le ore, la rappresentazione caricaturale del militare inglese vecchio stampo, conservatore e colonialista, che all’inizio del Novecento si contrappone allo spirito anticonvenzionale rappresentato da Mary Poppins e che certamente non reclama alcun genere di identificazione.

Ma chi sono di preciso gli Ottentotti, e perché pronunciarne il nome suona così discriminatorio ai mullah della political correctness? Più o meno sappiamo tutti che si tratta di una popolazione indigena. Dell’Africa australe colonizzata nel Seicento dagli olandesi, specificano i vocabolari, diffondendosi poi a descriverne le caratteristiche anatomiche e spiegando l’origine del nome: nella lingua afrikaans, il neerlandese degli immigrati bianchi, Hottentot è una voce onomatopeica che imita il linguaggio avulsivo di quel gruppo etnico, prodotto facendo schioccare la lingua contro il palato, e sta per “balbettante”. Un po’ come la parola con cui i Greci del V secolo avanti Cristo designavano i Persiani, non riuscendo a discernere, nel loro idioma, nient’altro che un’incomprensibile infilata di “bar-bar”.

Se i sullodati mullah fossero stati in pista ai tempi di Temistocle, oggi non avremmo la parola “barbari” (che del resto non possiede una connotazione univocamente negativa, tanto è vero che, per esempio, in una celebre poesia di Kavafis l’arrivo dei barbari è atteso dalla decadente civiltà classica come un salvifico apporto di linfa vitale). Ce ne faremmo una ragione. Quanto a Ottentotti, è un termine ormai abbandonato dagli etnologi e sostituito da Khoi (o Khoikhoi), il nome con cui gli indigeni stessi si designano, che significa “uomini”. Ma se il povero Boom avesse detto «Siamo stati attaccati dai Khoi», invece che «dagli Ottentotti», sarebbe cambiato qualcosa (a parte il fatto che solo gli etnologi avrebbero capito)?

E in fin dei conti, anche Ottentotti… Alzi la mano chi si è ancora imbattuto in questa parola dopo averla sentita da bambino in Mary Poppins. È vero, come aggiungono i vocabolari in fondo alla definizione (giusto mezza riga, niente più di un’appendice), che in senso figurato, ma di «basso uso», Ottentotto può stare per «persona ignorante, pigra e di modi rozzi e grossolani» (così il De Mauro). In questo senso il termine è usato per esempio all’inizio dell’Ottocento da Gian Domenico Romagnosi («Convengo agevolmente che prima che un pubblico di Uroni o di Ottentotti senta il merito di Newton e di Montesquieu ed intenda il tenore delle loro scoperte, si esige un corso di parecchi secoli»), o più di recente da Giosuè Carducci («Scrive come un Ottentotto»). Tempi passati e, aggiungiamo: per fortuna. Ma adesso chi usa ancora quella parola? Ai più, almeno qui in Italia, non suggerisce proprio niente.

Nel mondo anglosassone, però, le cose sono evidentemente un po’ diverse. I dizionari inglesi avvertono subito che la parola può essere offensiva e rimandano a quella (in tutti i sensi) corretta, ossia Khoikhoi. Non solo: riporto un’esperienza personale. Ho chiesto a ChatGpt di trovarmi le due frasi esatte dell’ammiraglio Boom in Mary Poppins. Risposta: «Nel film Mary Poppins, la parola Hottentot non compare. Potresti aver confuso il nome con un altro termine o con un altro contesto». Ho ripetuto la domanda, e ottenuto la medesima risposta. Allora mi sono arrabbiato: «No, sei tu che ti confondi!». A questo punto l’Intelligenza Artificiale – implicitamente dando ragione a Blake Lemoine, l’ingegnere di Google convinto che abbia una coscienza – si è scusata e ha ceduto: «La parola Hottentott è effettivamente menzionata nel film Mary Poppins durante la canzone “Supercalifragilisticexpialidocious”. Ecco la frase in cui compare: “Because I was afraid”». 

I was afraid, ok, e poi? Ma lì ChatGpt si è bloccato (o bloccata? Meglio stare cauti: diciamo “bloccat*”) e sotto le ultime parole è comparsa, su fondo colorato, la scritta «Questo contenuto potrebbe violare la nostra politica sui contenuti o i nostri termini di utilizzo. Se ritieni che ciò sia un errore, per favore invia il tuo feedback». A conferma che sulla questione c’è un nervo (in questo caso particolare, un chip) scoperto. E così anche Ottentotto è finito nella ormai lunga lista di proscrizione delle parole che nel mondo anglosassone non si possono più utilizzare, e per un riflesso automatico, c’è da giurarci, sarà presto bandita anche da noi, sebbene noi l’avessimo da tempo dimenticata. 

Accadrà insomma quel che è accaduto alla parola che Riccardo Muti – per rispetto filologico, buonsenso, ripulsa del ridicolo – ha giustamente preteso di conservare nel suo Ballo in maschera, e ottenuto soltanto perché si tratta di un’opera d’altri tempi, sebbene gli zelatori della cancel culture pretendano di riscrivere anche il passato. Nigger non si può più dire in America, perché legato a una luttuosa storia americana di violenze e sopraffazione, e negro non si può più dire in Italia, neppure per indicare chi scrive testi firmati da altri. Ma neanche nero (black), che l’ha sostituito, va troppo bene, a meno che non sia usato dai diretti interessati, e allora ecco soccorrerci “persona di colore” (coloured: sottintendendo sempre quel certo e non altro colore) o l’ancora più neutro “afroamericano” (se il contesto è americano; ma se il contesto è europeo? “Afroeuropeo”?). Certo oggi Edoardo Vianello non potrebbe gorgheggiare allegramente «Sia-a-mo i Watussi, gli altissimi negri», o Fausto Leali gorgheggiando lamentare «Io sono un povero negro» – né del resto potrebbe essere soprannominato “negro bianco”, e neppure “nero bianco” che potrebbe far pensare a bianconero; magari allora “bianco colorato”?

Battute a parte, spostando sempre più in alto l’asticella di ciò che è lessicalmente (politicamente) corretto e accettabile – come nel caso emblematico di handicappato→portatore di handicap→disabile→diversamente abile – non si finisce implicitamente proprio con l’assegnare una patente di disdicevolezza alla realtà che si vuole eufemisticamente paludare? L’eventuale offesa non è nelle parole, ma nel modo in cui vengono combinate, nel contesto (cioè nell’insieme degli elementi extra-testuali) e nel cotesto (l’insieme degli elementi intra-testuali) in cui vengono calate. È probabilmente un’illusione, ma non sarebbe meglio, meno discriminatorio, attenersi al significato base, non connotato, delle parole divenute offensive, farle proprie e tornare a utilizzarle con cognizione di causa, senza intenzioni nocive per alcuno?

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