Duemilatrecento. È il numero di metri che nel punto più vicino separa Kinmen alle coste del Fujan e Xiamen. Kinmen è un mini arcipelago amministrato da Taiwan. Il Fujian e Xiamen sono rispettivamente una provincia e una metropoli della Cina. Qui non c’è uno nulla a separare le due sponde. Qui lo stretto di Taiwan è un concetto astratto. Siamo nella manifestazione fisica di ciò che resta della Repubblica di Cina, il nome ufficiale con cui Taiwan è indipendente de facto, retaggio della guerra civile cinese. Un concetto che a Kinmen non è solo astratto. Qui le statue di Chiang Kai-shek, sull’isola in larga parte rimosse dopo la (ri)scoperta delle atrocità della legge marziale, si stagliano quasi a ogni piazza, così come gli slogan dei nazionalisti che sognavano la riconquista del “continente”. Kinmen doveva essere il punto di lancio dell’azione contro i rivali del Partito comunista. Azione rimasta un’illusione per Chiang, poi progressivamente accantonata e dimenticata ai primi bagliori del processo di democratizzazione di Taiwan.
Da teorico punto di lancio per la riconquista, Kinmen è diventato sempre più la porzione di territorio in prima linea di fronte alle ambizioni di riunificazione della Repubblica Popolare Cinese. Da diversi punti dell’arcipelago si vedono stagliarsi all’orizzonte i grattacieli di Xiamen. Da qualche giorno si vedono sempre più spesso all’orizzonte anche le navi della guardia costiera di Pechino. Un nuovo tassello del new normal intorno a Taiwan, in cui la Cina continentale sta progressivamente erodendo lo spazio di manovra militare e diplomatico di Taipei.
Secondo l’amministrazione della Guardia Costiera di Taiwan, intorno a Kinmen esistono delle “acque proibite” che si estendono tra i quattro e i sei chilometri dalle coste delle due isole principali dell’arcipelago. Una sorta di corrispettivo delle acque territoriali, che normalmente si estendono per dodici miglia nautiche dalle coste di qualunque Paese. In base ai protocolli esistenti, la Guardia Costiera è autorizzata a perquisire e sequestrare le imbarcazioni che operano all’interno dello spazio delimitato, dopo essere state avvertite due volte di lasciare l’area.
È quanto già accaduto diverse volte negli ultimi anni per navi di pescatori cinesi. Ma mercoledì 14 febbraio è successo qualcosa di nuovo. Un’imbarcazione cinese non si è allontanata e non si è fermata alla richiesta di ispezione da parte della Guardia Costiera taiwanese. È partito un inseguimento al termine del quale, in dinamiche non ancora del tutto chiarite, la nave cinese si è ribaltata. Due dei quattro pescatori a bordo sono morti, gli altri sono stati presi in custodia e portati a Kinmen. Dopo alcuni giorni di trattative e la visita di una delegazione dal Fujian, sono stati lasciati andare e in particolare uno di loro ha sostenuto che l’incidente sarebbe stato causato da «ripetuti speronamenti» della nave taiwanese. Subito c’è stato il primo scambio di accuse. Pechino ha dichiarato che da tempo Taiwan tratta i pescatori cinesi in modo «rude e pericoloso», e questo è stato il motivo principale dell’incidente «scellerato». Taipei ha accusato le navi cinesi di dragare ripetutamente e illegalmente la sabbia e di scaricare rifiuti nelle acque taiwanesi.
Il passaggio più importante è avvenuto a qualche giorno di distanza, quando le autorità di Pechino hanno chiarito che non esiste nessuna porzione di acqua proibita e che i mezzi cinesi hanno diritto di muoversi liberamente intorno a Kinmen. D’altronde, la Cina continentale non ha mai riconosciuto la demarcazione indicata dalle autorità taiwanesi, visto che considera Taiwan parte del proprio territorio. Ma fino all’incidente del 14 febbraio il “confine”era stato pressoché sempre rispettato. Da allora non è più così. Nei giorni scorsi le navi della guardia costiera cinese si sono mosse più volte a ridosso di quelle acque, conducendo dei pattugliamenti e almeno in un caso hanno ispezionato a bordo una nave di turisti taiwanesi.
Il modus operandi ricorda quello già adottato in merito alla “linea mediana”, confine sullo Stretto di Taiwan non ufficiale e non riconosciuto ma ampiamente rispettato fino all’agosto 2022. Dopo la visita di Nancy Pelosi a Taipei, le autorità di Pechino hanno sottolineato la non esistenza di alcuna “linea mediana” e da allora le manovre di jet e navi sullo Stretto si spingono quasi quotidianamente oltre di essa, pur fin qui senza valicare le 24 miglia nautiche delle acque territoriali. Sfruttare un incidente o un’azione altrui per imporre una nuova normalità, insomma. Prima ancora era successo anche sulle isole Senkaku/Diaoyu, contese tra Cina e Giappone nel mar Cinese orientale. Nel 2012, dopo che Tokyo ha acquistato una di queste isole, Pechino ha risposto alle proteste ultra nazionaliste esplose nelle città cinesi contro le sedi diplomatiche e commerciali giapponesi avviando manovre navali intorno all’arcipelago per reiterare le proprie pretese di sovranità. Manovre che sono poi state regolarizzate.
Taiwan teme che lo stesso possa accadere anche su Kinmen. Taipei sta cercando di abbassare le tensioni. Il ministero della Difesa ha dichiarato che lascerà la gestione delle manovre della guardia costiera cinese alla guardia costiera taiwanese, senza impegnare l’esercito. E ha aggiunto che la presenza delle navi della guardia costiera cinese nelle “acque proibite” intorno a Kinmen non verrà considerata una minaccia a meno che non si avvicinino alle forze militari di terra taiwanesi dislocate sull’arcipelago.
Già in passato si è ipotizzato che Pechino possa azzardare un’azione su Kinmen o sulle Matsu, altro arcipelago amministrato da Taipei che si trova a pochi chilometri al largo del Fujian. Territori davvero limitrofi alle coste continentali, praticamente indifendibili da Taiwan che mantiene sì una presenza militare nei due arcipelaghi ma con numeri di truppe e mezzi infinitamente minori rispetto a quelli di un tempo, quando Kinmen e Matsu erano i due avamposti di Chiang. Per Xi Jinping, però, l’obiettivo è la “riunificazione” con Taiwan. Kinmen e Matsu non rivestono in sé obiettivi strategici. Anzi. Da un punto di vista militare, agire sulle isole minori potrebbe cancellare del tutto qualsiasi possibilità di “riunificazione pacifica” e dare tempo a Taipei ed eventualmente a Washington e Tokyo di serrare le fila.
Dal punto di vista politico, inoltre, Kinmen e Matsu sono due canali di comunicazione importanti tra le due sponde visto che le amministrazioni locali sono sempre governate dal partito più dialogante, il Kuomintang (Kmt). Infine, c’è anche un aspetto più sottile. Togliere Kinmen e Matsu dall’amministrazione di Taipei potrebbe togliere al Partito progressista democratico (DPP) al governo una ragione per non dichiarare l’indipendenza formale di Taiwan e abbandonare la cornice della Repubblica di Cina, in parte giustificata proprio dal mantenimento di territori che poco hanno a che fare con l’isola di Taiwan e molto invece con la Cina continentale.
Il periodo è in ogni caso parecchio delicato, visto che a maggio è in programma l’insediamento del presidente eletto Lai Ching-te, vincitore delle presidenziali dello scorso 13 gennaio e considerato da Pechino un “separatista”. La Cina sta aspettando il suo primo discorso da leader in carica, forse anche per tarare le sue reazioni, pur conscia che il panorama politico taiwanese è molto più frastagliato di quanto possa sembrare a prima vista, dato che il Dpp ha perso le legislative e il nuovo presidente del parlamento unicamerale è Han Kuo-yu del Kmt. Circostanza che dà qualche possibilità a Pechino di provare a fare leva su questo scenario frammentato sul fronte interno. Ma ad aggiungere potenziali frizioni ci sono anche le mosse degli Stati Uniti. A metà febbraio, proprio a cavallo dell’incidente di Kinmen, Mike Gallagher ha guidato una delegazione bipartisan di deputati a Taipei. Gallagher guida il comitato speciale della Camera dei Rappresentanti sul Partito comunista cinese e durante il suo viaggio ha promesso che lavorerà per facilitare e velocizzare l’invio di armi a Taiwan, dove c’è più di una preoccupazione per la battaglia politica a Washington sui fondi per gli aiuti all’Ucraina e alla stessa Taipei.
Non solo. Nella vicenda è entrato anche Elon Musk, visto che Gallagher ha inviato una lettera all’amministratore di Tesla e SpaceX, chiedendo di mettere a disposizione delle truppe americane che orbitano intorno a Taiwan la tecnologica di Starshield, una rete di comunicazione satellitare costruita appositamente con funzionalità militari. «Mi risulta, tuttavia, che SpaceX stia trattenendo i servizi Internet a banda larga a Taiwan e dintorni, forse in violazione degli obblighi contrattuali di SpaceX con il governo degli Stati Uniti», ha scritto lo stesso Gallagher nella lettera. Ipotesi negata da SpaceX, ma certo Musk si è più volte espresso in passato a favore della “riunificazione” tra Taiwan e la Repubblica Popolare. Tanto che a Taipei stanno lavorando da tempo alla possibile realizzazione di una rete satellitare autoctona alternativa, utile ad aggirare il dilemma dei cavi sottomarini. Un tema diventato ancora più pressante dopo che nel febbraio 2023 due cavi che portano internet alle isole Matsu sono stati recisi da una nave cargo, ufficialmente in maniera accidentale. Con la velocità normale di connessione ripristinata solo dopo circa cinquanta giorni. Scenario che preoccupa i funzionari di difesa taiwanesi, nell’ipotesi di un futuro potenziale blocco navale dell’isola principale.