Piacere divinoLa lettura dell’infanzia e il godimento di sentirsi in compagnia anche da soli

Nei suoi botta e risposta immaginari con Proust, Guido Vitiello spiega perché i libri possono e devono essere più che un dovere. Un brano tratto da “La lettura felice” (Il Saggiatore)

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​​​​L’ape ostinata che non si fa scrupolo di ronzare nei paraggi del lettore assorto; il raggio di sole che lo sferza, riscuotendolo dal suo immobile sonno in stato di veglia; l’amico concitato e accaldato che lo sprona a unirsi al gioco, costringendolo a sollevare, anche solo di sbieco, gli occhi dalla pagina; gli obblighi di buona creanza che scandiscono, specie quando si è bambini, la vita familiare: nelle prime battute del saggio di Proust la descrizione del «piacere divino» della lettura è un inventario di comunissime seccature terrestri.

È come se un antico asceta siriaco o egiziano benedicesse i fastidi che nel deserto lo hanno sottratto alla quiete dell’orazione, e anziché combattere il demone meridiano – il sole allo zenit che porta accidia, disattenzione e fantasticheria – lo guardasse con indulgenza e con una speciale tenerezza, riconoscendolo come il miglior alleato, il più leale a conti fatti, nella battaglia spirituale. Ma la contraddizione è solo apparente, e si scioglie con facilità se proviamo a pensare alla lettura non già come a un esilio indispettito dal mondo, bensì come a un accesso diverso al mondo, che passa dal tenere in mano un libro.

Nella vita di molti lettori la prima rivelazione arriva proprio nel pomeriggio di un’estate dell’infanzia o dell’adolescenza. E capita di solito che ne sia messaggero un libro qualunque, non uno di quelli che dopo mille tentennamenti e ripensamenti avevamo messo in valigia, e che ancora portano impresso il segno del dovere, di un compito che ci eravamo imposti di onorare per mettere calcolatamente a frutto il tempo vacante; piuttosto, a iniziarci al gioco è un libro adocchiato di passaggio in una bancarella sul lungomare, o pescato da uno di quegli strani arnesi divinatori che sono gli espositori rotanti negli empori delle località di villeggiatura, dove il libro fatale ha atteso per anni o decenni, silenzioso e paziente, in mezzo a una baraonda di riviste di enigmistica, di creme abbronzanti, di palloni insaccati nei retini.

Anch’io, dei pomeriggi passati a leggere nei giardini delle case di villeggiatura, ricordo la partitura delle distrazioni come se componessero la più soave delle musiche: il cigolio ritmico del dondolo dalle molle arrugginite, il suono assiduo delle cicale che si duplicava a tratti in quello, che distinguevo a fatica, dell’irrigatore automatico; gli altri bambini in bicicletta che passavano scampanellando al di là del cancelletto; il rombo del traffico che saliva e scendeva con regolarità di marea, e che quasi si mimetizzava tra i suoni del paesaggio marino; il baccano dell’autoradio di una macchina in corsa, che sfumava in una coda distorta e cacofonica; infine la voce che da dentro casa o dall’uscio intimava: «A tavola!», e io che fingevo di non aver sentito, salvo poi rassegnarmi a mettere la matita tra le pagine e alzarmi con la flemma riluttante del dormiveglia.

Ma se ricordo tanto distintamente queste minuzie, queste nugae che ho vissuto senza viverle, e che erano né più né meno insignificanti di altri accidenti del giorno, è appunto perché in quei momenti ero assorto nella lettura; e quello stato di concentrazione disinteressata affinava, ai suoi margini, le percezioni più sottili.

Il distico così famoso di Sandro Penna, che come le preghiere più antiche sembra portarsi dentro, incastonata, la memoria delle mille occasioni in cui qualcuno ha potuto sillabarlo tra sé e sé – «Io vivere vorrei addormentato / entro il dolce rumore della vita» – è la divisa di tanti piaceri della mia infanzia, e voglio credere non solo della mia: sonnecchiare sul sedile posteriore nel lungo viaggio di ritorno da una cena fuori casa, imbambolato dal balenìo dei fari che mi raggiungeva anche dietro le palpebre chiuse, la testa ciondolante o premuta contro il finestrino; infilarmi nel letto mentre dalla stanza accanto ancora arrivava, appena attutito dalla porta socchiusa, il chiacchiericcio cullante del televisore confuso a quello dei miei familiari; giocare accovacciato sul fresco delle piastrelle della cucina o ai piedi del tavolo di marmo della sala da pranzo sul quale la nonna, noncurante di me eppure distrattamente benevola, setacciava lenticchie o sbaccellava fagiolini.

Essere insomma da solo ma in compagnia, solo di una solitudine amorevolmente vegliata: era questa la condizione a cui la lettura prometteva di rinnovare l’accesso ogni volta che lo desiderassi.

L’ingresso in un libro conferiva alle ore una densità misteriosa, chiamando a raccolta intorno alla mia testa assorta un nugolo di testimoni discreti e silenziosi – la gru della lampada artigliata alla scrivania, la sagoma informe dei vestiti gettati sullo schienale della sedia, il ramo del pino che a ogni folata di vento si sfregava contro la finestra della mia camera da letto, e che con mio rammarico il condominio decise infine di potare, sottraendolo da un giorno all’altro alla consuetudine di quella compagnia animistica così ben assortita.

In questo esaudire senza indugi la promessa di una vita diversa adagiata nel letto della vita solita, la lettura profonda non si distingue da ogni altra forma di gioco o d’arte o di meditazione, da tutti quegli esercizi liberi dell’attenzione in grado di trasportarci in uno stato di grazia che a ogni nuova ripetizione è raggiunto con meno sforzo, come una meta che sembrava lontana e a cui sappiamo ormai arrivare per una scorciatoia semplice quanto geniale.

La gratitudine retrospettiva che portiamo agli «ostacoli volgari» della vita che continuava a scorrere intorno al nostro libro è quindi un pegno appena doveroso, perché lungi dall’impedire la benedizione di quelle ore la rendevano possibile, le offrivano un asilo.

Tratto da “La lettura felice. Conversazioni con Marcel Proust sull’arte di leggere”, (Il Saggiatore), di Guido Vitiello, pp. 192, 20€

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