In Italia c’è sempre più lavoro. Il tasso di occupazione è arrivato al 62,1 per cento, mentre il numero di dipendenti e autonomi, full o part time, nel privato o nel pubblico, ha toccato i ventitré milioni e ottocentodieci mila. È ormai da qualche tempo che la crescita dei lavoratori superiore al Pil stupisce gli osservatori. Bolla del mattone, bassa produttività, maggior ricorso al part time, emersione di parte dell’occupazione in nero, le spiegazioni sono molte e non si escludono tra loro. A confermarle ci sono anche i dati sulle grandi città in cui l’occupazione cresce di più, che rivelano un’Italia molto variegata, ma in modo differente che in passato.
Milano però è esclusa da questo trend. L’unica metropoli europea del Paese, centro di attrazione dei servizi avanzati, delle multinazionali, dei giovani più istruiti e ambiziosi, sembra essersi fermata. Prima del Covid il tasso di occupazione nel capoluogo lombardo era del 72,6 per cento. Quattro anni dopo è sceso di due decimali, in controtendenza rispetto a un aumento medio nazionale del 2,5 per cento.
Anche Bologna e Firenze hanno visto una tendenza ancora più accentuata: nel primo caso il calo è stato dell’1,9 per cento, nel secondo dello 0,4. Si tratta di dati notevoli, perché proprio Milano, Bologna, Firenze sono sull’asse dell’A1, la dorsale che nell’ultimo decennio ha visto il maggior sviluppo in Italia, durante la fase di lenta ripresa post 2013. La discesa del tasso di occupazione a Torino forse può stupire meno, visto il declino che il capoluogo piemontese vive da molto tempo.
Dove, quindi, si è realizzato il piccolo miracolo italiano del mercato del lavoro? Nell’Italia un po’ più periferica, ai margini, nelle città medio-grandi, ma non grandissime. A Genova, per esempio, dove la percentuale della popolazione tra i quindici e i sessantaquattro anni con un impiego è salita in quattro anni di ben il 5,3 per cento, e poi nelle principali città del Mezzogiorno, a Catania, +4,9 per cento, a Bari, +4,2, a Messina, +3,9, a Palermo, +3,3 per cento. Ma anche nelle due principali città del Veneto, Verona e Venezia, dove il tasso di occupazione sale rispettivamente del 4,6 e del 4,4 per cento. La prima, anzi, supera Milano, con tassi tedeschi, visto che nel capoluogo scaligero a lavorare è ben il 75,8 per cento degli abitanti. Più limitato è invece l’incremento a Napoli e Roma. Anzi, se guardiamo ai dati in valore assoluto, nella Capitale non c’è stata alcuna crescita dei lavoratori, mentre è a Catania che sono aumentati di più, dell’8,7 per cento, partendo da numeri molto bassi.
In gran parte dei casi a salire di più è l’occupazione maschile, sia che la misuriamo in termini relativi, come tasso di occupazione, che assoluti, come numero di lavoratori. In quest’ultimo caso a Catania e Verona l’incremento percentuale è addirittura in doppia cifra, ma gli uomini prevalgono sulle donne tra i nuovi occupati anche a Genova, Bari, Messina, nonché a Napoli, dove la percentuale di lavoratrici sul totale, già scandalosamente bassa, del 30,4 per cento nel 2019, è ulteriormente scesa, al 29,7 per cento. Lo stesso è accaduto a Milano e Roma, a Bologna, Firenze, Torino. A fare eccezione, con un aumento molto più accentuato dell’occupazione femminile, è Palermo e soprattutto Venezia: nel capoluogo veneto il tasso di occupazione femminile è salito del 6,7 per cento, quello maschile solo dell’1,9 per cento. Che c’entri la vocazione turistica della città?
Un panorama simile si incontra anche nel caso dei giovani e a livello nazionale: pure tra i venticinque e i trentaquattro anni è andata un po’ meglio agli uomini che alle donne, nonostante fossero le seconde a partire più indietro. E questo è accaduto soprattutto nel Centro, in particolare nel Lazio, dove il tasso di occupazione maschile è aumentato del 9,03 per cento, mentre quello femminile del 5,03 per cento, e in alcune regioni del Mezzogiorno, come Puglia e Sicilia, ma anche in Liguria, nelle Marche, in Umbria.
Uomini meglio delle donne, quindi, ma anche città meglio della provincia, almeno laddove il mercato del lavoro è cresciuto bene. Gli aumenti del tasso di occupazione di Venezia e Verona sono stati superiori a quelli che si sono verificati nelle rispettive province, in Veneto e nel Nord Est. Lo stesso vale per Palermo e Catania, in cui questo stesso tasso è cresciuto più che nei comuni limitrofi. L’opposto è accaduto in Lombardia: sia nella regione che nella provincia di Milano è salito, non molto, ma è salito, mentre in città è sceso.
Questi dati, assieme alla prevalenza dell’occupazione maschile, potrebbero dirci che siamo di fronte agli effetti della bolla del mattone, della droga del Superbonus. Del resto l’Istat lo mostra chiaramente, tra la fine del 2019 e la fine del 2023 sono le posizioni lavorative nel settore delle costruzioni e in quello delle attività immobiliari a essere cresciute di più, di ben il trentaquattro e il trentatré per cento, mentre, per esempio, quelle nel commercio e nell’alloggio e ristorazione solo dell’otto e del sette per cento. Nella manifattura l’aumento è stato del quattro per cento e nella finanza c’è stato addirittura un calo. Quest’ultimo elemento potrebbe essere connesso con i numeri relativamente deludenti di Milano, mentre le migliori performance delle altre città rispetto alla provincia circostante potrebbero essere, appunto, collegate alla vivacità del mattone, che ormai anche per motivi demografici riesce a prosperare quasi solo nei centri urbani.
Dalla fine della piccola bolla immobiliare potremmo quindi svegliarci male? Non è detto, in fondo a essere aumentati bene sono stati anche gli addetti delle attività professionali e tecniche, e certamente è un ottimo segno che l’occupazione sia cresciuta soprattutto tra i giovani. Però dobbiamo ammettere che forse non è ancora pienamente chiaro quanto l’effetto illusorio della follia del Superbonus abbia abbellito i numeri dell’occupazione, e con essi quelli sui redditi e i consumi. E come potrebbe esserlo, se siamo il Paese in cui la Ragioneria dello Stato sbaglia i calcoli sull’effetto del Superbonus stesso di trentanove miliardi?