La Zona d’InteresseL’opera-video di Jonathan Glazer racconta il buio attraverso la bellezza

Reduce dall’Oscar 2024 come miglior pellicola internazionale e miglior sonoro, il film – una vera e propria esperienza sensoriale – svela la tragedia celata dietro l’indifferenza quotidiana, incitando a una profonda riflessione sull’impatto delle immagini sulla nostra percezione della storia e dell’umanità

Courtesy of A24

Lo scintillio dell’acqua del fiume, lo schiamazzo delle risate, il fruscio dell’erba che si piega sotto i passi svelti di un gruppo di persone che fanno ritorno dalla campagna dopo essersi godute la placida quiete di un tardo pomeriggio d’estate. Poi, i rumori degli spari, le grida e la stessa acqua che improvvisamente diventa torbida di cenere: è in maniera brusca che, da spettatori, veniamo catapultati nella cosiddetta “zona d’interesse” (Interessengebiet) che circondava per venticinque miglia il campo di concentramento di Auschwitz. In questo luogo, tra il 1940 e il 1944, furono torturati e uccisi più di un milione di prigionieri, per la maggior parte ebrei.

Questa atmosfera fa da preludio al tema centrale di “The Zone of Interest”, film diretto da Jonathan Glazer e basato sul romanzo di Martin Amis, dove l’orrore viene raccontato attraverso la bellezza. Bellezza che nella sua accezione più superflua e “inutile” riesce a dar vita a un’esperienza sensoriale totale, talvolta nauseante, costruita principalmente per immagini, suoni, persino per odori e temperature.

La tragedia si percepisce appena al di là del muro che separa il campo di concentramento dalla casa del comandante Rudolf Höß e di sua moglie Hedwig, ma il senso di angoscia e sconvolgimento che proviamo è amplificato dalla normalità apparente della loro vita. I personaggi vivono la quotidianità di una famiglia qualunque: l’educazione dei figli, le feste di compleanno da organizzare e il giardino da curare, volutamente ciechi di fronte a ciò che realmente sta accadendo. La distruzione è irrilevante per loro, un qualcosa che non merita attenzione neppure quando il brusio degli inceneritori disturba il loro sonno. Al contrario, per Rudolf e Hedwig, Auschwitz segna un punto di elevazione sociale, una svolta significativa nella loro vita di coppia e di famiglia. Il tempo nella cittadina polacca di Oświęcim trascorre piacevolmente, tra una cavalcata e una pianta da sistemare nella già ricca serra del giardino.

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La fotografia di Łukasz Żal assieme a un montaggio sonoro straordinario, danno forma alla vera voce della storia: schermate rosse e nere che sospendono temporaneamente la storia e poi le scene a infrarossi a mostrare la corsa notturna in bicicletta della cameriera polacca degli Höß, che raggiunge il campo per nascondere della frutta per i prigionieri. I dialoghi, infatti, sono scarsissimi e di poco valore per quasi tutta la durata del film, seppur con un paio di eccezioni. 

«I wasn’t really paying attention… I was too busy thinking how I would gas everyone in the room». Le parole di Rudolf Höß, pronunciate al telefono con la moglie, rivelano una disumanizzazione che coinvolge tutti, persino i bambini, in favore di un traguardo personale e professionale che appare oggi insignificante e decadente quanto il progetto hitleriano. Nessuna reale presa di coscienza innesca il conato di vomito di Höß mentre scende le scale, verso il finale del film. Nulla, se non la lucidità con cui – in una manciata di secondi – realizza il vuoto della propria esistenza. Ce lo dimostra Glazer con una panoramica silenziosa dei corridoi dell’attuale Auschwitz–Birkenau State Museum, mentre gli inservienti effettuano le pulizie prima dell’apertura al pubblico. 

Jonathan Glazer ha creato qualcosa senza precedenti nel cinema della memoria. La consapevolezza collettiva sulle vicende dell’Olocausto si è infatti nutrita per decenni delle immagini agghiacchianti dei rastrellamenti, delle zuffe per il poco cibo, delle file durante i trasferimenti nei ghetti – basti pensare a “The Pianist” (“Il Pianista”, Roman Polański), in cui fotogramma per fotogramma assistiamo alla distruzione della vita di Władysław Szpilman o alla scena di fuga della giovane Sara, che scappa proprio da Auschwitz nel film Sarah’s Key (“La chiave di Sara”) diretto da Gilles Paquet-Brenner. Non vediamo neanche i volti scavati dalla fame apparsi in Sophie’s Choice (“La scelta di Sophie”, Alan J. Pakula) del 1982, eppure li percepiamo costantemente. 

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Questo perché “The Zone of Interest” fuoriesce con assoluta grazia dal formato film, elevandosi, grazie al montaggio, a un’opera-video. Glazer si astiene dal ruolo di narratore: non interpreta, non decifra, non dichiara niente che permetta di dare un significato esplicito. Si limita a condividere con il pubblico qualcosa che fin dall’inizio richiama la loro responsabilità, un sentimento che mai sfiora i personaggi della sua storia. 

Come facciamo a codificare, rappresentare e proiettare l’orrore nel nostro presente? Glazer sembra domandarsi proprio questo. Basti pensare alla guerra a Gaza tra Hamas e Israele, su cui la sera della premiazione il regista si è espresso con le seguenti parole: «Il nostro film mostra che la disumanizzazione ha plasmato il nostro passato e sta plasmando anche il nostro presente. Che si tratti delle vittime dell’attacco del 7 ottobre o degli attacchi in corso a Gaza: come possiamo resistere?».

La scelta di Glazer è evidentemente condizionata dal rapporto che intratteniamo oggi con le immagini, immersi come siamo – a livello globale – in un flusso continuo di fotografie e video che mescolano pubblicità, sponsorizzazioni e informazioni superflue sotto forma di reel ad altre scene di guerre, conflitti, o scontri. Questa alternanza, secondo Gigliola Foschi, giornalista e critica fotografica, limiterebbe sempre più la nostra capacità di guardare, finendo per lasciarci disgraziatamente catatonici. 

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Dentro questa logica si muovono artisti come Alfredo Jaar, Ori Gersht, e Doris Salcedo, che attraverso media diversi esplorano temi di memoria, dolore, e la capacità delle immagini di comunicare al di là del visibile. Jaar, con “Real Pictures” (1995), crea delle scatole rivestite da lino nero in cui sigilla le sue fotografie e sulle quali serigrafa in bianco la storia della persona defunta. Dà poi forma a un percorso che si sviluppa attorno a questi elementi simili a sepolcri, che si elevano dal pavimento. Lavorando su una non-presentazione, la sua un’opera si conclude immergendo il pubblico in un profondo silenzio, mostrandosi e celandosi con la stessa intensità.

Secondo Jaar, i media ci rendono spesso passivi spettatori delle sofferenze altrui. Il suo lavoro invece, al pari del film di Jonathan Glazer, implica una partecipazione emotiva particolarmente attiva. Ecco perché anche nel video “Embrace” l’artista non mostra vittime, ma solo due bambini che – sfuggiti alla morte – si stringono l’uno all’altro. Queste opere, proprio come “The Zone of Interest”, non si impongono al pubblico con forza ma lo invitano a vivere un’esperienza visiva carica di tensioni interne, che lo travolgono tramite degli elementi esteticamente inquietanti e seduttivi.

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Proprio su questo si concentra il lavoro di Ori Gersht, Chasing Good Fortune. In queste fotografie l’artista rappresenta la fioritura dei ciliegi in Giappone. Delicato e fragile, il fiore di Sakura incarna una serie di concetti diversi, tra cui la natura effimera della vita, della morte e della rinascita che nel XIX secolo sono stati piegati per scopi nazionalistici e militari. Gersht intreccia quindi la naturale bellezza dei ciliegi con i momenti più bui della storia: i petali che cadono su terreni contaminati a Hiroshima fanno riferimento sia alle tragiche conseguenze del nucleare, che ai ciliegi di Tokyo, presenti come tributo nei santuari dedicati ai kamikaze.

A questo punto potremmo constatare che un certo tipo di immagine non si risolve mai in ciò che mostra, ma lascia dietro di sé un’eco sottile che invita alla riflessione di ciò che resta nascosto. Un esempio emblematico è Shibboleth, l’opera di Doris Salcedo presentata nel 2007 alla Tate Modern di Londra. Questa opera consisteva in una lunga crepa che si snodava attraverso il pavimento della Turbine Hall, allargandosi progressivamente fino a diventare così profonda da potervi inserire una mano. 

Con questa crepa impossibile da ignorare, Salcedo ha evocato le fratture della società moderna – razzismo, esclusione sociale, disuguaglianza –, stimolando i visitatori a riflettere su come queste divisioni possano essere superate o perlomeno riconosciute. Anche dopo il termine della mostra, la traccia lasciata dalla crepa, ora riempita ma sempre visibile come una linea scura, testimonia le lacerazioni persistenti nel tessuto sociale. Le immagini, quindi, spesso comunicano in silenzio, spingendoci a fermare lo sguardo per cogliere le loro voci mute. Voci che non solo si rivolgono al passato ma riescono a sollevare importanti riflessione sul nostro presente.

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