È tutto finito. Sono finite le istituzioni come le conoscevamo. La famiglia Ferragni non ha più sfondi da ricchi a scrocco per le storie Instagram, la famiglia reale inglese non è in grado di farsi un fotoritocco verosimile, le multinazionali della moda vengono sputtanate in diretta da attrici che ritirano l’Oscar annunciando che il vestito s’è strappato a metà serata, e neppure la lobby ebraica è più quella d’un tempo (oddioooo, ha detto lobby ebraicaaaa, è antisemitaaaa).
In compenso, vi avevo avvisato, la realtà è sempre più a forma di “American Fiction”. Lì, i bianchi spiegano ai neri come essere davvero neri, quale letteratura nera sia nera nel modo giusto, e quanto sia importante lasciar parlare i neri – sono sempre i bianchi a perorare la parola ai neri, e lo fanno dando sulla voce alle obiezioni che provano ad avanzare i neri.
Qui, il regista ebreo di un film ambientato ad Auschwitz è, l’abbiamo deciso noialtri dai nostri divani gentili, antisemita. E qui si entra nel territorio che più m’interessa del presente, che non è l’antiqualcosismo o la qualcosafobia, ma l’avversione alla sintassi non dico complessa ma insomma più strutturata di «cane, pane, minestrina col dado».
Sì, ci sarebbe anche da ragionare sulla popolarità della causa palestinese in un luogo – la serata degli Oscar, con tutti gli attori con le spillette proPal – in cui ci sono certo più persone di potere ebree che arabe. (Ha detto che gli ebrei trafficano in potereeee, le basi dell’antisemitismoooo).
Ci sarebbe da ammettere che la ragione per cui tutti coloro che salgono su qualche palco nel mondo chiedono il «cessate il fuoco» non è che si siano improvvisamente accorti di una situazione che dura dal secolo scorso, ma che improvvisamente quella situazione è un audiovisivo quotidiano.
Non è che Gaza fino a settembre fosse la Rive Gauche, un invidiabile quartiere residenziale tra la padella dei coloni e la brace di Hamas, ma non ci arrivavano sui telefoni immagini di devastazione e morte ogni minuto. Gli attori con la spilletta sono uguali a quelli del primo maggio che descriveva Beniamino Placido trentatré anni fa, certo: danno «lezioncine politiche di una ingenuità disarmante. Con voce tonante il cantautore arrabbiato ricordava al sindacato il suo dovere di combattere. Per chi? Contro chi? Ma per i buoni, perbacco, e contro i cattivi. Per il Bene contro il Male. Perché lui, il Male, il nemico, lo sappia».
Ma sono anche assai più assediati visivamente dall’orrore, rispetto al 1991, e quindi oltre alla lezioncina ingenua hanno la stessa priorità dei cantanti di Sanremo: più che la pace nel mondo, stanno invocando il permesso di non doverci più pensare, di non doversi più sentire nella posizione di chi come fa a ignorare ’sto disastro.
Certo è un meccanismo che è difficile capire se scegli la pavloviana reazione «antisemitiiiiii» invece che provare a interrogarti sull’impopolarità della tua causa persino in una serata in cui la tua causa prende l’Oscar come miglior film straniero. Ma non sarò certo così scema da mettermi a discettare di questa contrapposizione tra fanatici: a me interessa solo la sintassi.
Accade questo. Accade che – come abbondantemente previsto da chiunque avesse un cervello, un po’ di contezza del mondo, e una conoscenza anche superficiale dei film in concorso – “La zona di interesse” ha vinto l’Oscar come miglior film in lingua straniera.
In un mondo ideale, io potrei concentrarmi sul fatto che Martin Amis diceva che i libri che diventano grandi film sono quelli scritti male, quelli di cui tieni solo la trama e la prosa puoi buttarla e gliene dà una nuova il regista (il suo esempio era “Il padrino”). E sul fatto che questo sia il primo bel film da un romanzo di Amis e per farlo essere tale Glazer abbia tenuto, del libro, pochissimo, e non potendo avere il fraseggio di Amis abbia fatto proprio quella cosa lì: inventarsi una lingua cinematografica.
In questo noiosissimo mondo reale, di Amis non frega niente a nessuno giacché la polemichetta minore del giorno (quella maggiore è ovviamente l’assurda foto mandata in giro da Kate Middleton e da suo marito) riguarda il fatto che, ohibò, Jonathan Glazer ha ringraziato per l’Oscar con un discorso antisemita.
Jonathan, vieni qui, guardami negli occhi. Ma tu vai mai sulle pagine social di questo disgraziato giornale? No? Dovresti. Se vai a guardare i commenti ai miei articoli, troverai un pieno di quel che il geniale traduttore di García Márquez definiva «capire il cazzo per l’equinozio». Anche un pieno di gente che vuole insegnarmi a mettere le virgole, che spiega ai cognati quanto scrivo male, insomma tutte le cose normali nel secolo in cui meno male che si possono sfogare sui social sennò ce li ritroveremmo coi forconi sotto casa.
Ma, soprattutto, troverai gente che ti avrebbe chiarito, se l’avessi letta prima di domenica sera, che tu non puoi costruire una frase così. Cioè, puoi, ma spero tu sia stato pagato dalla famiglia reale inglese per farlo; spero che William, il marito della Middleton, ti abbia chiamato e ti abbia detto Jonathan, per favore, distraili tu, sennò continuano a farcele a fettine trovando nuovi buchi nella nostra foto che doveva essere una soluzione diplomatica e invece è diventata nuovo carburante per i paranoici.
Non so come si ponga Glazer rispetto a quella frase di Kissinger che diceva d’essere prima americano e poi ebreo (cui Golda Meir rispondeva che in Israele si legge da destra a sinistra): non so se sia prima un ebreo che ha fatto un film su Auschwitz o un suddito della corona inglese, fatto sta che domenica sera ha scelto la costruzione sintattica più adatta a far esplodere i cervelli degli americani (e figuriamoci di quelli che la leggono in traduzione) e distrarci dall’affaire Middleton.
«We stand here as men who refute their Jewishness and the Holocaust being hijacked by an occupation which has led to conflict for so many innocent people». Mi viene da ridere perché anch’io costruisco sempre le relative omettendo il «che»; mi viene da ridere perché un «that» avrebbe sterilizzato l’equivoco e le conseguenti isterie.
Mi viene da ridere perché quell’ebreo austriaco in nome del quale date cento euro ogni cinquanta minuti a professionisti del farvi sentire importanti, quello lì avrebbe detto che l’omissione del «that» non ha a che vedere col ritmo della prosa ma con l’inconscio al lavoro.
Traduco. Siamo qui come uomini che rifiutano il loro essere ebrei e l’olocausto diventino ostaggio di un’occupazione che ha portato a un conflitto che coinvolge così tanti innocenti. Certo che avrebbe potuto dire «che rifiutano che», diranno i miei piccoli amici d’Israele, non l’ha detto apposta.
Certo che anche voialtri non è che siate dei campioni della carità ermeneutica, dico io. Se lo leggete o lo traducete come se «il loro essere ebrei» fosse complemento oggetto, come state facendo mentre titolate che Glazer è un self-hating Jew, un ebreo antisemita (la terra sopra la tomba di Philip Roth sta sobbalzando per le risate), allora, cari miei, dovete portare fino in fondo quella linea interpretativa.
Se per voi Glazer non sta dicendo di rifiutare *che* il suo essere ebreo eccetera eccetera, se credete davvero che stia dicendo che rifiuta il suo essere ebreo, allora dovete portare fino in fondo quel ragionamento, e allora anche l’olocausto diventa complemento oggetto: quindi il regista ebreo d’un film su Auschwitz è, oltre che antisemita, pure negazionista.
E poi c’è anche un problema con «refute», che non è esattamente «rifiutiamo»: «ci opponiamo a» sarebbe più esatto, ma poi si perde l’ambiguità della costruzione in traduzione. Le lingue sono cose complicate, cari i miei indignati che devono twittare entro otto secondi e fare il titolo di giornale entro dodici. Per l’indignazione spicciola, suggerirei di attenersi alle analisi dei ritocchi fotografici.