Negligenza patologicaLa storia senza fine dell’inquinamento del fiume Sarno, spiegata dall’inizio

Il corso d’acqua campano continua a cambiare colore a seconda del periodo dell’anno e delle fabbriche in attività: dall’avellinese con la lavorazione della pelle fino all’Agro Nocerino Sarnese, in provincia di Salerno, con i prodotti agricoli e la lavorazione del pomodoro San Marzano tanto elogiato da Vincenzo De Luca. Che, al posto di andare al nocciolo della questione, preferisce definire «nafta» gli alimenti stranieri

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Sostenibilità ambientale, cambiamento climatico e salute: negli ultimi mesi e anni questi concetti sono entrati prepotentemente nel nostro vocabolario, sebbene la loro definizione non sempre sia cristallina e afferrabile. Nonostante da una parte l’attenzione che progressivamente si riserva all’ambiente possa indurre, almeno in teoria, incoraggianti speranze, dall’altra l’avvicinarsi a questi argomenti (in particolare il cambiamento climatico) genera un comprensibile timore. Ci spaventano le condizioni del nostro Pianeta, la vita che ci attende  e la netta convinzione di essere in tremendo ritardo. Una generale propensione all’indugio che, in Italia, coinvolge indistintamente il Nord e il Sud. In Campania, per esempio, questo atteggiamento trova massima espressione in una gestione ambientale e della natura talvolta rovinosa. Un rimpallo perenne di responsabilità condivise che ha tanti nomi e, se dovesse farsi corpo, avrebbe l’aspetto di acque torbide e liquami rivoltanti che fanno boccheggiare, ma non smuovono dall’indugio. 

L’importante è che se ne parli, si dice, eppure a guardare i dati alcuni fenomeni sono da tempo considerabili emergenze. Del fiume Sarno, che con i suoi ventiquattro chilometri di lunghezza attraversa tre province (Avellino, Salerno e Napoli, dove raggiunge il mare) e trentanove Comuni, nel 2018 si diceva che fosse il fiume più inquinato d’Europa, incluso nella top 10 mondiale, piazzandosi per la precisione al sesto posto. Due affluenti, Cavaiola e Solofrana, e un bacino che ricopre una superficie di circa cinquecento chilometri quadrati che destavano preoccupazione già vent’anni fa: l’Organizzazione mondiale della sanità, nel 1997, segnalava una maggiore incidenza di cancro e leucemia proprio nelle zone del bacino. Negli stessi anni qualcosa si muove anche a livello nazionale.

Prima nel 1992 e poi con il decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 14 aprile 1995 si dichiara lo stato di emergenza socio-economico-ambientale nel bacino idrografico del fiume Sarno, tra i primi riconoscimenti a livello nazionale di una situazione che negli anni ha visto susseguirsi approcci altalenanti e risoluzioni mai definitive. A guardare indietro, però, risale addirittura al 1973 il Progetto Speciale n. 3 (PS3), anno in cui Napoli fu colpita da un’epidemia di colera; è in quell’occasione che il governo in carica decise di lanciare un tentativo di disinquinamento del golfo di Napoli intervenendo sul territorio, quindi anche sul fiume Sarno, attraverso il collettamento e la depurazione di scarichi civili e industriali. Un colpo a vuoto, un progetto che dopo inquantificabili investimenti non ha prodotto i risultati sperati. 

Ne sarebbe passata di acqua putrida sotto i ponti per far sì che l’attenzione fosse rivolta nuovamente al Sarno, sempre più inquinato dopo il boom economico degli anni Sessanta. Quella del bacino del Sarno è infatti una zona fortemente antropizzata, con quasi un milione di abitanti e tante, tantissime industrie. I cittadini si ammalano sempre di più, per alcuni accade senza apparente motivo. «Non ho saputo più niente del Sarno, fino al 2006, quando cominciai a occuparmi dell’inquinamento in Regione Campania», racconta a Linkiesta il dottor Antonio Marfella, presidente di Isde, l’Associazione dei medici per l’ambiente, ricercatore all’ospedale Pascale di Napoli e autore del libro “I miei cento passi nelle Terre dei Fuochi” (Guida Editori).È proprio Marfella, nel 2006, a eseguire i primi biomonitoraggi tossicologici ai pastori di Acerra, Napoli, avvelenati dai policlorobifenili (Pcb) sversati nelle loro terre dalla Camorra. Uno di loro, Alessandro Cannavacciuolo, muore nel 2007 di cancro ai polmoni, nel suo sangue furono trovati cinquecentocinquantasei nanogrammi per grammo di lipide di Pcb, valori che superavano di venticinque volte i limiti consentiti. 

Per circa un trentennio il disastro Sarno scompare dai radar, mentre in Campania e non solo si comincia a parlare della Terra dei Fuochi. Interramento di rifiuti tossici e speciali, discariche abusive e roghi che avvelenano l’aria tra Napoli e Caserta, i riflettori sul Sarno si riaccendono di sbieco: nel 2006 la commissione parlamentare d’inchiesta presenta un documento conclusivo di un processo, cominciato tre anni prima, in cui ci si interrogava sulle cause dell’inquinamento del fiume Sarno e sul perché gli investimenti profusi non avessero risolto il problema. 

«Dal 1973 erano già passati più di trent’anni, il fiume era rimasto identico in termini di danni, con una voluta confusione tra inquinamento antropico (scarichi fognari), e inquinamento chimico legato agli scarichi di tutte le aziende che affacciano sul fiume Sarno», dice Marfella. Perché si parla di inquinamento antropico? Se sono circa un milione gli abitanti del bacino del Sarno, circa la metà di questi – cinquecentomila cittadini, secondo l’Ente idrico campano, è a oggi sprovvista di un collegamento al sistema fognario. Per fare un paragone, è come se il comune di Genova facesse completamente affidamento su un corso d’acqua per liberarsi dei reflui di tutta la città.

Una storia infinita, a quanto pare difficile da affrontare. «Un sistema di depurazione consiste di una serie di componenti che devono lavorare all’unisono, è un sistema complesso che ha bisogno di molta energia per poter funzionare, risorse umane qualificate e anche investimenti importanti. Rispetto al PS n.3 c’era un ritardo nella realizzazione degli impianti e solo nell’ultimo ventennio si è riuscito a colmare il deficit, in termini di impianti di depurazione», spiega a Linkiesta Giancarlo Chiavazzo, responsabile scientifico di Legambiente Campania. Le infrastrutture idriche sono materia intricata, il tutto diventa più inafferrabile se  mancano componenti fondamentali. 

«Gli impianti di depurazione sono stati completati già da qualche anno, non sono però ancora completi tutti i collettori, ma soprattutto le reti di raccolta, le reti fognarie. Quindi, a oggi, abbiamo nel bacino del Sarno impianti che sono a tutti gli effetti funzionanti, che non ricevono ancora tutto il carico che dovrebbero trattare perché non viene tutto intercettato alla fonte, in quanto le reti fognarie sono carenti in diversi comuni», continua Chiavazzo. A prescindere dalla mancanza di un aggiornato sistema idrico, a livello comunale, è sufficiente avvicinarsi agli argini del fiume Sarno per sospettare che un tale inquinamento non possa avere una sola causa, per di più urbana. 

«Il problema dell’inquinamento del Sarno è dato anche dai rifiuti antropici e fognari ma è sempre stato, in termini soprattutto di danno alla salute umana, determinato dagli scarichi industriali che, in via direttamente proporzionale alla gravità, sono sempre andati dalle industrie conserviere e, fino al massimo della tossicità, dalle industrie conciarie», commenta Marfella. È così che il Sarno continua a cambiare colore a seconda del periodo dell’anno e dalle fabbriche in attività, dall’avellinese con la lavorazione della pelle fino all’Agro Nocerino Sarnese, in provincia di Salerno, con i prodotti agricoli e la lavorazione del pomodoro San Marzano. 

Quest’ultimo nel 1996 ha ottenuto il riconoscimento dell’Unione europea come prodotto D.O.P e la sua qualità, univoca e innegabile, è stata negli anni difesa a spada tratta anche oltre i confini regionali. Sostenitore per antonomasia delle eccellenze campane, Vincenzo De Luca, governatore della Regione dal 2015 e precedentemente sindaco di Salerno, dove ha lasciato il segno anche per la campagna “Cafoni Zero” in cui lapidava i cittadini irrispettosi dell’ambiente pubblico commentando e mostrando immagini in video: una verve creativa rilanciata durante la pandemia. Eccellenze più o meno degne di nota facendo un passo indietro, il neo eletto governatore nel 2016 sosteneva apertamente l’unicità del pomodoro San Marzano e, a suon di «giù le mani dal pomodoro San Marzano», si scagliava contro l’allora Commissario europeo all’Agricoltura, Phil Hogan. Il San Marzano non è replicabile, non può essere coltivato fuori dalla zona geografica delimitata, né confuso con le sue imitazioni, si sosteneva. Eppure l’area in cui il pomodoro San Marzano prospera, l’Agro Nocerino Sarnese per l’appunto, è vittima di una cementificazione folle, con una densità abitativa che supera quella del Bangladesh: 1.807 abitanti per chilometro quadrato contro i 1.265 del Paese asiatico. 

Ciò si traduce, inevitabilmente, in reflui fognari non depurati e sversamenti abusivi di ogni genere. Tanto spazio per i pomodori e anche per l’inquinamento, a dimostrarlo numerosi studi sistematicamente ignorati. Nel 2015, per esempio, l’esperto di geochimica ambientale Benedetto de Vivo e un think tank di altri specialisti, hanno pubblicato uno studio sulla distribuzione degli elementi tossici nell’ambiente analizzando le componenti presenti nel Bacino: cromo, piombo, mercurio, rame e zinco nelle acque del Sarno e non solo. 

«Metalli pesanti e cromo presenti dove? Nelle acque, nel terreno e anche sulle insalate coltivate con l’acqua del fiume Sarno e dintorni. Hanno trovato gli stessi contaminanti industriali non antropici perfino nei capelli delle persone che andavano dal barbiere, cittadini di quelle zone», commenta Marfella. Sempre nel 2015 trova pubblicazione un libro intitolato  “Monnezza di Stato. Le Terre dei fuochi nell’Italia dei veleni” (Minerva Edizioni) di Antonio Giordano, direttore dello Sbarro institute for cancer research and molecular medicine and center for biotechnology della Temple University di Philadelphia (Usa). Nel testo, Giordano riprende le tesi sviluppate da suo padre (Giovan Giacomo Giordano, medico e ricercatore al Pascale) dagli anni Settanta e racconta di essere riuscito a individuare un nesso di causalità tra cancro e inquinamento ambientale, grazie all’ input degli Stati Uniti.

«Dieci anni fa, mi resi conto che in tanti anni non era mai cambiato nulla. In quel periodo il governo federale americano era particolarmente focalizzato sulla questione Terra dei Fuochi perché fortemente preoccupato per gli americani della base Nato di Napoli che vivevano in alcune delle zone più inquinate. Alcuni soldati e le loro famiglie erano state colpite da gravi forme di cancro». Grazie agli investimenti ottenuti e mentre le istituzioni italiane riconducevano l’anomala incidenza di malattie oncologiche a sfortunate conseguenze dello stile di vita dei cittadini, Giordano e il suo team rilevavano un aumento di tumori alla mammella in donne giovanissime (under quaranta). A ciò si aggiungeva la casistica sommersa nel napoletano, non rilevata a livello nazionale.

Un vaso di Pandora, come ha affermato Giordano, la cui entità resta ancora sconosciuta se si considerano le province di Avellino e Salerno. Se il sommerso resta tale, i dati ufficiali sono un colpo allo stomaco. Nel  2018, a quanto riporta il Piano Regionale della programmazione della rete ospedaliera, il tasso di mortalità in Campania è superiore alla media nazionale, con un’incidenza di tumori maligni nel loro complesso inquietante: i tassi tra gli uomini superano quelli del Paese intero. Per l’Agro Nocerino Sarnese, nello specifico, la situazione non è rosea; l’associazione malati, trapiantati e donatori di organi (Amdot) di Nocera Inferiore (SA) nel 2014 rileva che su 100 decessi nell’area dell’Agro, sessantacinque sono riconducibili a malattie oncologiche.

Dal 2015, a quasi dici anni di distanza, la portata del danno tra Irpinia e salernitano resta ancora non quantificabile con precisione. Una decade che ha visto però la nascita del concetto di ecoreato e la conseguente  regolamentazione e l’inserimento dei delitti contro l’ambiente nel codice penale. Nel 2022 i reati contro l’ambiente, in Campania, sono stati 4.020, circa undici reati al giorno, e cinquecentouno i sequestri, più di dodicimila negli ultimi dieci anni. Interventi massicci che se da un lato generano fiducia, dall’altro intensificano la convinzione che quello delle ecomafie sia un universo sfaccettato, estremamente complesso fatto di abitudini criminose ben radicate e numerosi attori, che si interfacciano in una catena infinita di scambi.

«La Terra dei Fuochi non è un luogo, è un metodo», afferma Marfella. Un modus operandi che ha responsabilità collettive e generazionali, per cui l’ultimo arrivato non rompe il cerchio dell’illegalità  a meno che non si sottragga completamente ai pattern consolidati. I sequestri continuano, le aziende e imprenditori vengono indagati uno dopo l’altro, un effetto domino che però non sembra bastare, poiché gli scarichi illeciti (a tratti e seguendo la stagionalità delle società coinvolte) continuano a essere segnalati dalla popolazione, in un rimpallo di responsabilità in cui manca il punto di caduta. Mentre i consorzi di bonifica si occupano della manutenzione del fiume Sarno e delle sue diramazioni, intervenendo sulla flora in eccesso, le aziende beneficiano di controlli saltuari o assenti e di un ginepraio di autorizzazioni alle quali poter accedere. 

Gli scarichi di fogna, per esempio, sono controllati dall’ente idrico di competenza: se c’è un depuratore, la società dovrà trattare i propri reflui e affidarsi all’attività dell’impianto, se il depuratore non c’è allora i reflui (in teoria trattati) finiranno nel Sarno/ nei canali limitrofi. Nell’ultimo caso, entrano in campo le istituzioni locali, Provincia e Comuni, quest’ultimi con la presunta responsabilità di vigilare sulla qualità dell’acqua immessa nel Sarno insieme all’Arpac regionale, che dovrebbe intervenire effettuando controlli. Eppure, le cronache locali dimostrano un evidente cortocircuito: il primo cittadino di Scafati, per esempio, nell’agosto del 2023 denunciava alla Regione i miasmi provenienti dal Sarno, dicendosi pronto a evacuare aree intere della città. «Meglio essere un pomodoro San Marzano, che sarà sicuramente più tutelato di un cittadino campano», dice Marfella.

In un’indagine sulla percezione dei rischi alimentari dei consumatori campani del 2006 della Federico II di Napoli e dell’Università del Sannio, quasi la totalità dei prodotti sottoposta al campione è stata percepita come alimenti a rischio, e i fattori di rischio maggiormente avvertiti in tutte le province sono riconducibili all’inquinamento ambientale (rifiuti e discariche, in particolare per frutta e verdura). La consapevolezza anche se frammentata c’è, mancano i mezzi, i dati, le rassicurazioni. Negli anni si sono susseguiti tentativi degli abitanti di richiamare l’attenzione sull’inquinamento del Sarno: famosa la provocatoria Acqua Sarnella, campagna marketing dell’associazione Controcorrente, che da anni fa divulgazione sulle condizioni del fiume Sarno. 

Claim forti come “L’acqua che elimina. Punto” oppure “Favorisce la naturale formazione di tumori” per sensibilizzare sul disagio vissuto e percepito, a cui la popolazione tenta di rispondere con marce e manifestazioni, esposti alla  Procura regionali e  la presenza sui social, con dirette dai campi abbandonati, interviste agli abitanti sugli argini del fiume, riprese degli scarichi abusivi. Una sorta di giornalismo partecipativo, fatto di privati cittadini attivi online che talvolta fanno innervosire le istituzioni, per i toni esasperati e accusatori. A osservare le reazioni di una parte di istituzioni, l’esperienza del vivere il Bacino del Sarno è assimilabile al visitare una galleria d’arte in cui la salvaguardia delle opere esposte lascia qualche perplessità. Eppure il gallerista, all’ennesima critica ricevuta, preferirà rispondere che i visitatori non fanno altro che lamentarsi, non sanno neanche godersi un bel Monet. 

La pandemia, più di ogni altro evento, è riuscito a fornire una visione d’insieme e una prospettiva su ciò che da quasi cinquant’anni manca ai cittadini del Bacino. Mentre la costruzione delle reti fognarie prosegue, Il lockdown ha fatto sì che molte aziende interrompessero le proprie produzioni; una benedizione per il Sarno, tornato per la prima volta limpido e pulito. Una condizione che se perdurasse sottrarrebbe Campania e Italia a continui imbarazzi, anche in Europa. «A livello comunitario, come Stato membro, condividiamo dei target, degli obiettivi. C’è una direttiva di riferimento comunitaria che riguarda la depurazione, la 271-91, la direttiva 781, sulla quale l’Italia (e la Campania concorre) abbiamo delle procedure d’infrazione. Alcune passate purtroppo ingiudicate, altre in corso, in evoluzione, che determinano gravami e sanzioni», spiega Chiavazzo. 

Secondo Legambiente infatti, nel rapporto annuale sulle Ecomafie, nel 2023 la Campania è al primo posto per reati commessi contro l’ambiente. Dati impietosi e che lasciano poco spazio alla fantasia; come si affermava già nel 2006 all’interno del documento conclusivo della commissione parlamentare d’inchiesta presentato dal Senatore Manzione «la situazione di inquinamento del fiume Sarno è talmente grave da risultare assolutamente evidente anche a occhio nudo». Cristallino ora come presumibilmente nel secolo scorso, una certezza che via via si è dissipata tra minimizzazioni e sciatterie che sembrano ripetersi, in un loop senza fine. Intanto De Luca afferma che il disinquinamento del Sarno diverrà realtà entro il 2025, con un impegno dal valore di quasi trecento milioni di euro da accompagnare ai Masterplan, progetti ambiziosi per lo sviluppo economico campano. 

Tre le aree interessate (Litorale Domitio-Flegreo, Litorale Salerno Sud, Litorale Cilento Sud) per la riqualifica totale delle coste campane, con collaborazioni importanti e che fanno ben sperare. Lo scorso aprile, per esempio, è stato presentato il Masterplan-PIV Litorale Salerno Sud «redatto dal gruppo progettuale aggiudicatario della gara, la RTI -MATE Soc.Cooperativa_Capogruppo Mandataria del Costituendo RTI– Studio Silva S.r.l. – FTourism & Marketing di Josep Ejarque – Stefano Boeri Architetti s.r.l., congiuntamente agli uffici regionali e con il diretto coinvolgimento delle Amministrazioni comunali dell’area target», come da pagina web dedicata. Mobilità, forestazione, sostenibilità, eppure al Masterplan, secondo Legambiente, manca un elemento fondamentale. 

«Questi Masterplan hanno un grosso difetto», spiega Chiavazzo di Legambiente. «Quello di aver scelto di non avvalersi di un istituto importante a livello normativo e fattuale, ovvero la Valutazione Ambientale Strategica. Quest’ultima è un obbligo, tra l’altro, degli Stati membri perché deriva dalla direttiva  comunitaria e prevede che debbano essere previsti e ridotti gli eventuali impatti che si possono determinare sull’ambiente. Si tratta di una scelta strategica perché va ad agire molto preliminarmente, prima ancora prima che si vadano a formare le idee». Entrata in vigore nel 2001, la VAS mira a garantire la protezione ambientale, orientando i passi degli Stati membri verso strade sostenibili, lungimiranti. Strade ancora inesplorate e che, verrebbe da pensare, almeno in Campania forse non esercitano una particolare fascinazione ma varranno l’ennesima procedura d’infrazione. 

Non c’è modo, per i cittadini campani, di capire se negli anni la situazione abbia subito qualsivoglia cambiamento. Il registro tumori, in Campania, non è aggiornato dal 2018 e il discorso Sarno è tutt’altro che chiuso, soprattutto nei suoi risvolti più tangibili e dolorosi.  Nonostante ciò le acque melmose e il fetore soffocante, negli anni, non sono riusciti a impregnare completamente le stanze dei bottoni, a invadere le narici di chi le decisioni avrebbe il potere di prenderle, con un briciolo di coraggio. Il coraggio, tra chi può poco, si trasforma presto in annichilimento: di vita, di fronte all’ennesima estate irrespirabile, ma anche d’espressione del sé, linguistico.

Chiamatelo tumore e mai cancro, tra i cittadini delle zone si fatica anche a nominarlo, in un atteggiamento che oscilla tra il reverenziale e lo scaramantico. Se non ti pronuncio non esisti, per le persone che in Campania parlano dialetto (quasi tutte) quelle cellule impazzite sono “a malatia”, oppure sintetizzabili nella durata di un supplizio: due mesi, sei mesi, poche settimane. Un crudele artificio che però si fa verità, anche se sussurrato. Il cancro ha il viso dello zio e della zia deceduti a un mese di distanza l’uno dall’altra; della compagna di liceo, mai arrivata alla maturità; del padre di famiglia che non ha fatto in tempo a festeggiare il Natale; dei cugini che fanno prevenzione negli ospedali del Nord, perché a malatia in casa loro è già passata. Per me il cancro ha la forma di un portamonete in finta pelle, turchese, comprato in un pomeriggio afoso prima delle elementari in un mercatino di Napoli, mentre mio nonno faceva l’ennesima chemio al Pascale. 

Nel 2016 De Luca ha affermato che l’olio tunisino «è nafta», presumibilmente scadente, di dubbia qualità. A voler considerare l’intera filiera, francamente il pomodoro San Marzano potrebbe riservare qualche delusione. Cosa c’è, però, dopo la delusione? La fama cieca e granitica che ingloba tutto ciò che le fertili terre del Sarno riescono a produrre è il mito a cui aggrapparsi, da tramandare con fede instancabile. Un mito non privo di difetti che, a guardarlo da vicino come Narciso il suo riflesso, rischia di ingurgitarti facendoti annegare.

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