Fischia l’antisemitismo Gli islamofascisti di Hamas in piazza con l’Anpi, e gli ebrei sotto scorta

L’ipocrisia sull’esclusione della comunità ebraica dalle manifestazioni del 25 aprile a Roma. Blindata la Brigata ebraica a Milano. Complimenti per il ribaltamento della storia

Lapresse

È sconfortante questo 25 aprile che vede sfilare a Roma e Milano le bandiere dei fan di Hamas, epigoni dei palestinesi che durante la Seconda guerra mondiale si schierarono attivamente al fianco dei nazisti, ma che non vede sfilare i gonfaloni delle comunità ebraiche delle due città, esclusi dal settarismo di una Anpi che copre e avalla senza pudore l’antisemitismo dei cortei filopalestinesi.

A Milano sfila solo la Brigata ebraica, medaglia d’oro per la Resistenza, ma deve essere protetta e blindata da un imponente servizio d’ordine per impedire che venga assalita con violenza, come ogni anno, dai filopalestinesi. A Roma, scandalo che ha dell’incredibile, da anni, l’Anpi impedisce alla Comunità ebraica di sfilare nel corteo del 25 aprile perché opta per gli slogan antisraeliani.

A fronte di tutto questo il Partito democratico tace, Elly Schlein tace, i sindaci Beppe Sala e Roberto Gualtieri acconsentono. I leader della sinistra non prendono le distanze dall’Anpi che a Milano rifiuta lo striscione «Democrazia ovunque», per occultare lo scandalo di una democrazia che è viva solo in Israele ed è calpestata in Palestina e in tutti i Paesi arabi.

Non solo, l’Anpi emargina anche la delegazione degli ucraini in Italia, che ovviamente ritengono che la parola d’ordine ufficiale del corteo, «Cessate il fuoco ovunque», faccia solo il gioco aggressivo di Vladimir Putin. Questo succede nella sinistra oggi in Italia. Questo è il suo antifascismo.

Un paradosso intriso di ignoranza e di demagogia che vede esclusi i simboli di un ebraismo e di un sionismo da sempre antifascisti, e esaltati quelli di un movimento palestinese storicamente alleato del nazifascismo.

Per fare chiarezza è indispensabile andare ai fatti storici a iniziare dalla smentita di un voluto fraintendimento: Israele non nasce affatto come «riparazione» della Shoah. L’Onu decreta la nascita dello Stato ebraico il 29 novembre del 1947 per una ragione: i sionisti sono stati cobelligeranti degli Alleati e delle democrazie nella guerra contro il nazifascismo.

Nel dibattito che precede il voto a maggioranza di due terzi dell’Assemblea, non si parla della strage hitleriana, solo tre parole di Andrey Gromyko – allora ministro degli Affari Esteri dell’Unione sovietica – ne fanno riferimento.

Il fatto determinante del voto a favore della bipartizione, oltre alle logiche della geopolitica, è che ben cinquantamila ebrei dell’allora Mandato britannico della Palestina, il nove per cento dell’intera popolazione ebraica, hanno combattuto da volontari nell’esercito inglese contro il nazifascismo dal 1940 al 1945. Moshe Dayan perde l’occhio l’8 giugno 1941 combattendo in Siria contro i collaborazionisti di Vichy, alleati dei nazisti.

Solo dopo molte pressioni, anche di Hannah Arendt, nel 1944 questo esercito ebraico dentro quello inglese ottiene la formazione di una Brigata ebraica sotto la bandiera con la stella di Davide: cinquemila uomini, il dieci per cento dei volontari sparsi nell’esercito inglese, che combattono i nazifascisti da Brindisi al Tarvisio.

All’opposto, tutta la leadership della Palestina che poi dirigerà la guerra del 1948 contro Israele, a partire da Amin al Husseini, il Gran Muftì di Gerusalemme, e dal comandante militare palestinese Fawzi al Qawuqji, si infanga in una stretta alleanza con Hitler e con il nazismo. Trecento sono i dirigenti palestinesi che nel 1941 si installano a Berlino, il Gran Muftì ha più incontri con Benito Mussolini e con Adolf Hitler in cui proclama «la concordia delle idee per risolvere la questione ebraica» e rilancia continue dichiarazioni dalla radio nazista in arabo controllata dai palestinesi. Il Gran Muftì organizza anche a Sarajevo una brigata di Ss musulmane.

Nel 1947, reduce da un campo di detenzione francese per «reati contro l’umanità», il Gran Muftì viene nominato a capo del Consiglio palestinese che conduce la guerra, disastrosamente persa, contro i sionisti. Sconfitto, il Gran Muftì continua ad essere leader dei palestinesi sino al 1958; il 20 luglio del 1951 i suoi sicari uccidono Abdallah I, il re di Giordania che trattava un accordo di pace con Golda Meir.

Totale sintonia con il nazismo, inoltre, da parte di Hassan al Banna, fondatore dei Fratelli musulmani, di cui Hamas, nel suo Statuto, rivendica di essere «la componente palestinese». Le radici filonaziste di Hamas e dei Fratelli musulmani di cui è parte sono tanto certe e scabrose, quanto volutamente ignorate a sinistra.

Hassan al Banna, entusiasta ammiratore dei Protocolli dei Savi di Sion, fa tradurre in arabo il Mein Kampf, è un lettore fedele del foglio nazista antisemita Der Sturmer di cui ristampa le vignette antisemite, organizza pogrom contro la comunità ebraica del Cairo e non risparmia elogi: «Hitler e Mussolini hanno condotto i loro paesi verso l’unità, la disciplina, il progresso e il potere. Quando Hitler e Mussolini parlano, l’umanità, sì l’universo, obbediscono con un profondo rispetto».

Stretti i rapporti della Fratellanza egiziana con gli emissari nazisti durante la lunga battaglia di el Alamein, cui segue la partecipazione dei Fratelli musulmani al tentativo fallito di colpo di Stato filonazista al Cairo del 1942 del generale Negib a cui partecipano anche Gamal Abdel Nasser e Anwar al Sadat, dal 1936 ferventi filonazisti. Golpe che punta a schierare l’Egitto a fianco dell’Afrika Korp nazifascista, alle spalle dell’esercito inglese, per rovesciare le sorti della stessa battaglia di el Alamein.

Il tutto, ovviamente, all’insegna del più urlato e rivendicato odio per gli ebrei. Dunque, questo 25 aprile l’Anpi fa sfilare con gloria gli eredi arabi e palestinesi del peggiore antisemitismo filonazista, entusiasti del pogrom del 7 ottobre che ha straziato milleduecento ebrei, ed emargina la comunità ebraica.

L’antisemitismo, a sinistra, erede di una corposa tradizione staliniana e sovietica, trova sempre nuove strade per modernizzarsi. È scomodo ricordarlo, ma nell’album di famiglia della sinistra italiana, in primis nel Partito Comunista Italiano (Pci), per decenni, sottotraccia, l’antisemitismo ha prosperato. Sino al 1956, al rapporto Krusciov sui crimini di Stalin, ha imperato l’accusa staliniana di «cosmopolitismo borghese» rivolta contro il sionismo che si è accompagnato al rifiuto di considerare l’unicità tragica della Shoah, derubricata come «episodio marginale della lotta di classe».

Solo la morte improvvisa ha impedito a Stalin, come ha dimostrato Louis Rapoport, di innescare nel 1953 un nuovo sterminio di ebrei russi, innescato dal falso e inventato «complotto dei medici ebrei» per uccidere il dittatore. Il Pci, staliniano, ha taciuto.

Poi, nel 1956 la geniale svolta di Nikita Krusciov ispirata dall’ideologo Michail Suslov: i leader arabi del panarabismo, tutti apertamente e attivamente filonazisti durante la guerra – Nasser e i dirigenti del Baath siriano e iracheno, inclusa la famiglia di Saddam Hussein – sono stati promossi dall’Urss campioni della «lotta dei popoli oppressi contro l’imperialismo americano». Imperialismo rappresentato in Medio Oriente, secondo i comunisti sovietici, da Israele.

Così, undici anni dopo, il Partito Comunista Italiano, in totale sintonia con l’Unione Sovietica, si schiera compatto – unica eccezione Umberto Terracini, già presidente dell’Assemblea Costituente – a fianco di Nasser, il cui esercito e la cui aviazione sono armati dai sovietici, che chiama e eccita le piazze arabe a «eliminare Israele dalla faccia della terra». Persa rovinosamente dagli arabi la «guerra dei sei giorni» del giugno 1967, i sovietici, e in piena concordia il Pci, indicano nei palestinesi i «nuovi vietcong» che combattono Israele, «avamposto dell’imperialismo americano». L’Urss rompe le relazioni diplomatiche con Israele. Il Pci approva.

Nel 1968 il comunista Wladyslaw Gomulka accusa gli ebrei di avere promosso le grandi manifestazioni che nel marzo in tutta la Polonia hanno contestato il regime e chiesto la libertà. In un discorso televisivo ordina agli ebrei di lasciare il paese ed inizia una epurazione capillare degli ebrei dai ministeri, dalle scuole e dall’esercito. Venticinquemila ebrei polacchi sono costretti ad emigrare per evitare una repressione durissima.

Il Pci tace. Sino ai primi anni duemila, con poche eccezioni, tutta la dirigenza del Pci e dei partiti in cui via via si trasforma è radicalmente antisraeliana. Esponente primo di questa eredità di piena matrice staliniana e sovietica è Massimo D’Alema.

Solo negli ultimi quindici anni, grazie alla fusione con i popolari e alla leadership di dirigenti come Giorgio Napolitano – da sempre in minoranza nel partito – matura una svolta che si sintetizza nella sua denuncia dell’antisionismo che in realtà è antisemitismo.

Più a sinistra, va riconosciuto, Sergio Bertinotti definisce «Israele luogo dell’anima» e segue lo stesso percorso.

Ma oggi, il Partito democratico, questo Partito democratico, tace a fronte del permanere di una vasta area di sinistra che esalta il pogrom di Hamas chiamandolo «resistenza» ed esercita violenza nelle piazze e nelle università per combattere Israele. Il nuovo antisemitismo avanza, coperto dall’Anpi e dai silenzi della dirigenza del Partito democratico.

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