Ai giovani neonazisti in kefiah che l’altro giorno, a Yale, si tenevano per mano nella “human chain” che impediva agli studenti ebrei di entrare nel campus, perché entrando avrebbero attentato all’integrità della comunità resistente («try to disrupt our community»), non credo serva spiegare quanto fossero simili a quelli che facevano la stessa cosa negli anni Trenta del secolo scorso, con divise diverse ma con identici obiettivi e identici slogan. Un cordone profilattico oscenamente uguale si sviluppava all’entrata delle scuole e università tedesche e della Marca Orientale, e anche in quel caso si trattava di preservare quei luoghi dalla contaminazione ebraica. Ma non serve spiegarglielo. Come non serve spiegare a chi assiste a tutto questo che, restando inerte davanti a tutto questo, si rende responsabile dello stesso comportamento che tennero quelli che allora identicamente stavano a guardare.
Soprattutto, non serve spiegare a questa gente, ai neonazisti in kefiah e a quelli che ne comprendono, quando non ne giustificano, le pratiche da kristallnacht, che l’esecrazione per quel che sta succedendo a Gaza rende anche più odiose, anche più infami, anche più meritevoli della durissima condanna che non c’è, la violenza puramente antisemita non solo insita, ma manifesta in quella caccia allo studente gravato di colpa ebraica. Se pure fossero fondate le accuse di genocidio, infatti, se pure fossero vere le notizie false disseminate dalla propaganda Onu e filoterrorista di cui si fa ripetitore il grosso del giornalismo anti-israeliano, cioè il grosso del giornalismo, quelle scene dei ragazzi ebrei allontanati e intimoriti da turbe che inneggiano ai cento, mille, diecimila 7 ottobre dovrebbero far rivoltare lo stomaco e smuovere qualche atto concreto anche da parte del più strenuo difensore della causa palestinese, anche da parte del critico più feroce delle politiche israeliane. Nemmeno una parola, invece.
Cronaca, tutt’al più, cronaca del fatto che a un professore ebreo è impedito di entrare nell’università in cui insegna, cronaca del fatto che in quelle università non possono entrare in tranquillità gli studenti ebrei, cronaca del fatto che, se ci entrano, è messa a rischio a loro incolumità, cronaca del fatto che nei campus i “segni” ebraici debbono essere rimossi perché altrimenti sono vandalizzati.
Qui da noi la condanna per quel che succede negli Stati Uniti non si rivolge ai neonazisti in kefiah: si rivolge alla non incondizionata promessa di quella democrazia di difendere Israele e il popolo di Israele dai propositi di annientamento apertamente rivendicati dagli esecutori e dai mandanti dei massacri del Sabato Nero.
Qui da noi il marcio yankee è identificato nella soggezione alla lobby giudaica, non nelle università in cui inneggiare al genocidio degli ebrei può anche essere okay, perché dipende dal contesto.
Qui da noi l’America in cui fa capolino il profilo della bestia, l’America in cui gli ebrei, per la prima volta nella storia di quel Paese, debbono nascondersi in quanto ebrei e proteggersi in quanto ebrei, è celebrata nel ricordo intenerito delle proteste contro la guerra nel Vietnam.
Qui da noi la coscienza sporca del continente delle leggi razziali si compiace che il mondo nuovo, con tutta la sua forza e la sua potenza, stia facendo un passo avanti nel segno della tradizione del vecchio.