Non ricordo qual è stata la prima o la centesima volta che l’ho pensato, in questo lungo weekend in cui i retweet venivano spacciati come lotta partigiana sulle montagne, in cui il senso del ridicolo era più stramorto del solito, in cui è stato chiaro che la curva d’apprendimento è vieppiù piatta. Non ricordo quand’è che ho pensato per la prima o centesima volta: io a vedere la sinistra schiantarsi sempre negli stessi modi non ce la faccio.
I fatti, se beati voi vivete nella capanna di Unabomber e domenica mattina non avete cliccato sulla app di Repubblica trovandoci in apertura quindici tra pezzi, video, ritratti, editoriali, retroscena, su Scurati, di Scurati, per Scurati, tra Scurati. (Il Corriere più moderato solo perché Scurati non è più editorialista suo. Non che nessuno si fosse in questi mesi accorto che era passato dal Corriere a Repubblica, ma non divaghiamo).
Serena Bortone, conduttrice d’un programma da quattro per cento del sabato sera su Rai 3, chiede ad Antonio Scurati – premio Strega, bestsellerista, professionista dell’antifascismo – un monologo da declamare in trasmissione. Lui scrive una paginetta di compitino su Matteotti, e qualcosa va storto.
C’entrano Calboni e Talleyrand? Luca Bizzarri, comico, ha detto che questa è una di quelle occasioni in cui il funzionario Rai smanioso di compiacere il potere eccede in prudenze. Andrea Malaguti, direttore della Stampa, ha ricordato che Talleyrand raccomandava: surtout, pas trop de zèle. Che anche a me pare un buon motto per sintetizzare queste due giornate di resistenza immaginaria, temo per ragioni diverse da quelle per cui lo evoca Malaguti.
Fatto sta che all’autrice e conduttrice di “Chesarà…” viene comunicato l’annullamento della prevista ospitata scuratiana, e lei fa ciò che hanno fatto tutti i Santoro del mondo in questi venticinque anni del format «Censura, puntesclamativo»: invece di risolvere la questione, arma un casino garantendosi un posto fisso nel martirologio (posto già prenotato mesi fa, quando percependosi eroica disse in trasmissione d’essere fiera d’essere antifascista, e il Twitter di Pavlov la acclamò come fosse stata una staffetta partigiana e non una conduttrice fin lì invisibile che aveva trovato il modo di diventare, scusate la parola, virale).
Naturalmente, poiché siamo bravissime a lamentare che ci siano poche donne di potere, ma sia mai che una donna di potere sia disposta a posizionarsi come donna di potere e non come Pollyanna che sbatte le ciglia travolta da una realtà più grande di lei, Serena Bortone – oltretutto protetta dall’essere una giornalista assunta dalla Rai a tempo indeterminato, non un Santoro collaboratore in balìa dei rinnovi contrattuali – scrive su Instagram che lei ha «appreso con sgomento, e per puro caso, che il contratto di Scurati era stato annullato».
Non è quello il momento in cui penso che non ce la faccio; lo so per certo, perché ricordo bene che quello è il momento in cui penso a Corrado Guzzanti che fa Rutelli («a’ Sere’, me fai ammazza’ dalle risate»), e in cui penso: ah, quindi la Bortone ora prende atto di venir trattata come il due di coppe quando briscola è a danari, e dice beh, se neanche mi dicono quando saltano gli ospiti e devo scoprirlo per caso, il programma ve lo fate voi e io torno dignitosamente a lavorare in redazione. Lo so: sono tenerissima.
Bortone, che è più sveglia di me, fa il suo apparentemente sprovveduto post dopo aver scartato l’alternativa che non avrebbe portato gloria a nessuno: far andare Scurati a Roma, insistere coi funzionari Rai, o convincere lui a fare ciò che ha poi fatto lo stesso (rinunciare a fatturare) e, nel caso assai improbabile che venisse messo il veto sulla sua presenza in studio a titolo gratuito, solo a quel punto piantare un casino – mica dodici ore prima, rendendo chiaro che è al casino che miri e non alla soluzione.
Breve inciso. Domenica Il manifesto riportava come non fosse la prima volta che la Bortone fa scrivere un monologo e la Rai le risponde «col cazzo»: sarebbe già accaduto mesi fa con Nadia Terranova, che aveva scritto un monologo mai andato in onda sugli studenti manganellati dalla polizia. Non ricordo, all’epoca, stuporoni pubblici della Bortone e conseguente indignazione dei social e dei giornali. Sarà perché Terranova è meno Strega e meno bestsellerista, o perché la puntata era meno adiacente al 25 aprile e all’antifascismo di Pavlov. Sarà che quel giorno a Bortone non funzionava Instagram. Surtout, sapere in quali casi vale la pena giocarsi la carta dell’indignazione per raccogliere il maggior consenso possibile.
C’è una questione di soldi, a margine della questione Scurati, che dovrebbe costituire come minimo un paio di capitoli nella nuova edizione del manuale delle malattie psichiatriche. Vediamo se riesco a riassumerla.
Il compenso per il compitino su Matteotti sarebbe stato di milleottocento euro. Pochi? Tanti? Medi, direi. La Rai li avrebbe ritenuti tanti e l’ufficio scritture avrebbe quindi bloccato il contratto. L’ufficio scritture della Rai, per capirci, è quello che venticinque anni fa offrì a un premio Nobel trecentomila lire a puntata per presentare Sanremo, giacché per l’ufficio scritture della Rai il Nobel non conta granché, se non hai «il precedente». Cioè un precedente contratto con la Rai che stabilisca il tuo valore monetario. Qual è il precedente di Scurati? Non lo sapremo mai, giacché come tutte le storie italiane anche questa è rapidamente diventata “Rashomon”.
Repubblica sabato pubblica una foto d’una schermata Rai in cui si dice che l’ospitata di Scurati è annullata per «motivi editoriali». Facciamo che ci fidiamo, e che quella è la vera comunicazione interna: servono, a voler fare una lettura non tifosa, i codici per decrittarla. Esiste la possibilità che in una comunicazione interna Rai qualcuno lasci scritto «è troppo esoso»? «Motivi editoriali» è una formula standard come «motivi di famiglia» nelle giustificazioni quando non ci andava di andare a scuola? Dipende da a chi chiedi, come in ogni rashomon.
Nel frattempo, però, sui social succede una cosa stupenda. Poiché il posizionamento antifascista richiede di stare con Scurati senza se e senza ma, il paese che strepita per il danaro altrui sempre e che normalmente non vede l’ora d’indignarsi se qualcuno è pagato coi-nostri-soldi, quel paese lì quei milleottocento euro per il compitino su Matteotti li difende come fossero il salario minimo d’un metallurgico. La gamma di zelanti motivazioni va da «il lavoro va pagato» a «non sono milleottocento per un minuto, sono milleottocento per una vita di studi per arrivare a quel minuto» (no, giuro: sono proprio milleottocento per un minuto, lo so che se lo ammettete vi si rivoltano contro i lavoratori culturali ai quali nessuno dà non dico milleottocento ma neanche centottanta euro al minuto come premio per una vita di dottorati, ma è una buona occasione educativa per ribadire che «quelli capaci la fila non la fanno»).
L’inevitabile protagonista del sabato pomeriggio è l’effetto Barbra Streisand di quando cerchi di occultare qualcosa e finisci per moltiplicare l’attenzione. Scurati dà il testo del suo monologo ai giornali, quelli ovviamente lo pubblicano, le autopercepite staffette partigiane twittano cose come «Linkiamolo tutti, facciamogli vedere che non si può silenziare l’antifascismo», sempre nei toni sobri che hanno generazioni che non hanno mai avuto a che fare con una dittatura e quindi si concedono il lusso di vederne di immaginarie ovunque.
A un certo punto mi appare persino un tweet di Giuliano Ferrara con scritto «La Rai ha pestato una cacca. Viva Scurati e il suo monologo», e piangendo mi viene da ridere. Qual è la differenza tra quando Santoro non doveva rompere i coglioni perché un editore aveva diritto di fare l’editore – cioè di dire: questo va in onda, questo no – e questa bega del 2024? Che la Meloni è meno simpatica a Ferrara di quanto lo fosse Berlusconi e la Bortone gli è meno antipatica di quanto lo fosse Santoro, d’accordo: ma può essere l’unico criterio, superata la quinta ginnasio?
Comunque. Il risultato barbrastreisandizzato è che il monologo è ovunque. Il compitino riassumibile in «Matteotti ucciso, Meloni fascista» – compitino che sarebbe scomparso, morto d’irrilevanza, in un programma televisivo di cui normalmente non s’accorge nessuno – viene diffuso come fosse un gol dei mondiali; finché succedono due cose.
La seconda è che la sera, come fosse appunto un gol dei mondiali, il compitino va a reti unificate, tutti a leggere quel passaggio sulla parola «antifascismo» che «palpiterà sulle labbra riconoscenti», giacché non c’è più differenza di lessico tra vibranti monologhi politici e “50 sfumature” (d’altra parte, se il registro abituale degli intellettuali all’opposizione è «bastardi» e «mentecatta», «palpiterà» è in effetti retorica sofisticata). Gramellini e Vecchioni lo leggono su La7 (almeno così mi dicono: far funzionare la app di La7 è impossibile a me come a chiunque); Serena Bortone lo legge su Rai 3.
Ribadendosi ingenua ragazza senza potere («Ho scoperto del tutto casualmente», «pur avendo passato tutta la sera a telefonare, mandare messaggi, mandare mail, non sono riuscita a ottenere alcuna spiegazione»); non presentando però di conseguenza le proprie dimissioni; ma soprattutto premettendo che «ho letto ricostruzioni fantasiose e offensive, qualche giornale ha scritto addirittura che ci sarebbe stata una questione di soldi, preciso che la reazione di Scurati è stata di regalarmi il testo».
Surtout, ribadire che il denaro è lo sterco del demonio e noialtri lavoriamo per la sola vocazione democratica. Surtout, omettere che milleottocento euro Scurati li incassa con seicento copie di “M.”, e insomma ecco è un sacrificio minore, considerato quante centinaia di migliaia di copie ha venduto quella trilogia (e l’anno prossimo arriva la serie Sky e altro che milleottocento). Ma scusate, non vorrei far sempre la parte della volgare capitalista, mentre scrittori e attori e sindaci e antifascisti tutti declamano in ogni dove il compitino su Matteotti sentendosi parte della resistenza – a titolo gratuito.
Io non ce la posso fare con una sinistra per cui le questioni di soldi sono «offensive», ma questo è un problema mio. Il problema di logica è invece: prerequisito per l’antifascismo è dunque lodare la generosità di Scurati per non essersi fatto pagare dalla Rai un testo che nel frattempo aveva lasciato pubblicare gratuitamente ai cani, ai porci, alle VongolaPartigiana75? (Testo e polemica non sono comunque riusciti a far arrivare Bortone al cinque per cento, d’altra parte era la milionesima replica dello stesso compitino).
La prima cosa che succede nel bel mezzo dell’effetto Barbra Streisand è che a un certo punto del sabato pomeriggio Giorgia Meloni pensa: vi faccio vedere come la gestisce una che ci sa fare con la comunicazione (mi scuso per tutte le volte in cui ho scritto che Meloni era una Ferragni della politica: è evidente che Ferragni ha moltissimo da imparare da lei nella gestione degli inciampi, è evidente che è Ferragni a essere una Meloni d’insuccesso).
Il suo «vi faccio vedere come posta un’italiana» comincia dalla sinistra che monta un caso invece di pensare ai veri problemi del paese, passa per una spruzzata di populismo sui milleottocento euro che un dipendente prende in un mese, plana su lei ostracizzata per una vita che mai chiederà «la censura di nessuno. Neanche di chi pensa che si debba pagare la propria propaganda contro il governo coi soldi dei cittadini».
Surtout, io non ce la posso fare a vedere la Meloni vincere per i prossimi trecento anni, e la sinistra incartarsi sempre negli stessi modi.
La domenica mattina Antonio Scurati le risponde su Repubblica, straparlando della violenza che gli sarebbe stata fatta con un post su Facebook (come sopra: a non avere mai un problema vero, se ne proiettano di immaginari ovunque; è una buona notizia: siamo satolli e sereni, e possiamo dedicarci a usare parole serie per questioni poco serie).
Nella sua risposta, parlando di sé stesso in terza persona, Scurati si definisce «un privato cittadino e scrittore suo connazionale tradotto e letto in tutto il mondo». Ora, non voglio accanirmi sulla costruzione in cui sembra voglia dire che lo scrittore è connazionale del privato cittadino invece che della Meloni; non voglio neanche soffermarmi sul dirsi da soli che ti leggono in tutto il mondo, ché poi si nota che sono invidiosa; voglio solo dire che io non ce la posso fare. È un limite mio, scusate.