Soncini freeIndovina chi viene a cena con cani e puccettoni (non io)

Polemica del giorno sui figli al ristorante: se riservassimo alle cose serie lo stesso accanimento che usiamo per reagire alle spiritosaggini su Twitter, avremmo già risolto il problema dei senzatetto e trovato la cura per il cancro

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Scrivo questo articolo otto ore dopo la pubblicazione sull’account d’una tal Libellula – quattordicimila follower: non esattamente un’opinion leader – di un tweet, o come si chiamano ora, che dice così: «Sarò impopolare, ma i baci in bocca tra genitori e figli adulti non li concepisco».

Nelle prime otto ore, il tweet ha raccolto un’ottantina di rilanci, altrettanti commenti (perlopiù favorevoli), e millecinquecento cuoricini: non c’è come la premessa «sarò impopolare» per star certi che il maniavantista sta per dire una cosa condivisa dai più.

La ragione per cui decine di sconosciuti ritengono di dire a Libellula il loro pensiero sui baci in bocca ai figli è duplice. Prima, e principale motore del funzionamento di quell’inferno della ragione che sono i social, è la confusione dei contesti.

A un tweet con una spiritosaggine di Vongola75 si risponde col vigore che andrebbe riservato a una proposta di legge. A una frase in un talk show si reagisce come se fosse un attacco personalmente rivolto a noi (a noi che il parlante neppure sa che esistiamo). Fiorello che cazzeggiando dice che i canali con numeri dispari si comprano tra di loro (cioè: che il Nove sta per acquisire il notiziario di La7) viene rilanciato come fosse una seria comunicazione aziendale. Grande confusione, pochissimo cielo.

La seconda ragione è che quasi nessuno ha il potere ricattatorio nel discorso pubblico che hanno i bambini, da «e come ti permetti tu di dirmi come devo educare i miei figli» in giù. I bambini non si toccano, insorgono le Filumena Marturano drammaturgicamente traballanti di questo secolo, e infatti è così che è finita la Ferragni: uccisa dall’indignazione frasifattista «ha sottratto soldi ai bambini malatiiii».

(Breve divagazione. Ma è vero che una certa procura, per le indagini atte a capire se la Ferragni vada rinviata a giudizio per truffa dolciaria, ha già speso seicentottantamila euro? Volete proprio farmi diventare una che dice «con le mie tasse», eh?).

Quando arriva la variazione Libellula sul tema infanzia, sono giorni che tweet in tutte le lingue commentano – con un’enfasi e un accanimento che se li riservassimo alle cose serie avremmo già risolto il problema dei senzatetto e trovato la cura per il cancro – una foto che aveva chiaramente intenti spiritosi (spirito di patate, ma non è che possiamo pretendere granché da un tweet gratuito: la comicità è un lavoro molto ben retribuito, se qualcuno lo fa gratis è perché non è capace).

C’è un tizio che indica una lavagna fuori da un pub, il tweet dice che ha trovato il suo posto ideale, sulla lavagna c’è scritto «dog friendly, child free». Cioè: accogliamo i cani, non vogliamo i bambini.

Ora, qualunque persona razionale – cioè: qualunque persona d’un altro secolo, o qualunque persona che in questo abbia preservato i propri neuroni stando lontana dall’internet – sa che il problema in quell’avviso non sono i bambini (poi ci torniamo) ma i cani.

I cani nei locali pubblici sono l’inferno, e chiunque mi sia amico riceve ogni mattina decine di imprecazioni mentre faccio colazione cercando di evitare cani che si spulciano sulle brioche e ringhiano ad altri cani mentre i rispettivi proprietari ridono felici pronosticando future amicizie tra le bestie che a volte tengono al guinzaglio ma neanche sempre, e se gli chiedi di tenerti lontano l’animale ti rispondono «ma è buonissimo» e il fatto che io non abbia ancora dato una testata sul naso a un proprietario di cane è invero un miracolo e il primo candidato a sindaco che vieta l’ingresso dei cani nei posti in cui si mangia io lo voto fosse pure un nazista dell’Illinois – fine dell’invettiva.

Invece, poiché tutte (e tutti, mica gli uomini non sono isterici, figuriamoci, anzi) hanno il filumenamarturanesimo dialettico, improvvisamente decidono tutti che è un sopruso, una violazione etica e didattica, un’inaccettabile vessazione che il mio duenne non possa essere portato a bere la birra. È la stessa questione di cui avevamo già parlato di recente: mio figlio di cinque anni deve fare merenda davanti a Rothko, mio figlio unenne deve poter avere la colichetta nel palco della Scala, e se non sei d’accordo sei per l’estinzione dell’umanità ed è colpa tua se donne dotate di anticoncezionali e di carriere non fanno otto figli e resterai senza pensione.

A un certo punto mi compare la solita foto di questo poverocristo con la lavagna del pub, rilanciata con vibrante commento che fa così: «Immaginate un locale che vieti l’ingresso a un’altra minoranza di esseri umani. Coi bambini si può. L’unica minoranza che è tollerabile discriminare, per un solo motivo: non può difendersi. Del resto, è lo stesso motivo per cui si ritiene tollerabile addirittura picchiarli».

Ora, non è che una va sull’internet, regno delle Vongola75, e si aspetta di trovarci considerazioni normodotate. Non è che pensa che gli utenti di questo troiaio siano tenuti a sapere che veramente era pieno di minoranze che era tollerabile discriminare fino a non moltissimo tempo fa (non vi racconterò quella storia di Marilyn Monroe che si siede in prima fila solo se eccezionalmente un certo locale lascerà cantare una sua amica nera, una tal Ella Fitzgerald – e non era sette secoli fa, negli illuminati Stati Uniti d’America).

Non è che si possa pretendere che la Vongola media sappia di vivere nel 2024, cioè in un’epoca in cui se dai una sculacciata a un bambino ti danno l’ergastolo ostativo, altro che «tollerabile picchiarli»: noialtri normodotati sappiamo che i bambini sono ormai creature sacre, mica quelli che tornavan comodi perché abbastanza piccoli da entrare nei tunnel delle miniere; ma tutto questo Vongola non lo sa.

Poi vai a guardare la bio social del commentatore, e leggi: «Professor of Sociology Scuola Normale». Cioè tu mandi i figli alla Normale nella convinzione che essi ne usciranno con un’accresciuta comprensione del mondo, e quelli si ritrovano come professore uno che non capisce il tono d’una scritta, e che è convinto che l’infanzia di questo secolo venga educata a cinghiate. Forse la normalizzazione del mondo passa per l’abolizione delle università, prima ancora che dei social.

A un certo punto, dopo giorni di deliranti prese di posizione, la verità scomoda la scrive Paola Galloni, che ha uno dei figli più maleducati ch’io abbia mai incontrato e quindi sa di cosa parla. Il suo tweet fa così: «I bambini ci vogliono andare al ristorante? Non credo». Improvvisamente mi risale tutto il rimosso d’un’infanzia di decenni fa che pare di questo secolo.

Gli adulti di oggi fanno vite molto diverse da quelle degli adulti del secolo scorso, e simili a quelle che facevano i miei, che erano un’avanguardia delle ottusità attuali. Tra le altre abitudini che oggi paiono irrinunciabili e all’epoca erano rare, i ristoranti.

I miei mangiavano quasi sempre fuori, e spesso mi portavano con loro. Per la prima mezz’ora ne ero felice: mi è sempre piaciuto mangiare bene, cosa che a casa mia era impossibile perché, non sapendo cucinare la padrona di casa, non sapeva cucinare neanche la servitù (avrete notato anche voi che nelle case di proprietà di gente senza papille gustative si mangia malissimo).

Ma, una volta finito il mio piatto, mi annoiavo terribilmente. Gli adulti del Novecento stavano a tavola a fare una delle molte cose che i bambini non sanno fare: conversazione. I bambini che si annoiano diventano molesti (io poi ero già vocata di mio alla molestitudine). I bambini al ristorante sono l’inferno.

Lo so io, che sono stata una bambina al ristorante. Lo sa Galloni, che ha imparato presto a lasciare a casa il suo. Lo sanno tutti quelli che non proiettano sulla lavagna del pub la propria frustrazione di bambini che nessuno portava mai al ristorante. Loro, ai figli che baciano voluttuosamente in bocca, non imporranno questo deficit di accudimento. Loro vendicheranno le loro infanzie a casa davanti alla tele imponendo a tutti i noi i loro puccettoni non solo alle mostre e a teatro, ma anche nei pub e negli stellati. E, ogni volta che il figlio piangerà fortissimo, invece di chiedersi se abbia poi così voglia di stare lì, ci guarderanno con aria di sfida: lo sai chi è che ti pagherà la pensione, eh?

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