Nel 1944 lo storico Karl Polanyi pubblicò “La grande trasformazione”, un classico di economia politica che attraverso una critica radicale del paradigma liberista descriveva il profondo stravolgimento che la Rivoluzione industriale aveva prodotto, disarticolando l’economia dal tessuto sociale. Ottant’anni dopo, superata la fase in cui si era creduto che la globalizzazione avrebbe portato solo frutti positivi, al Consiglio europeo straordinario iniziato ieri a Bruxelles si sta tentando un assaggio di un nuovo futuro (nuovo perché non previsto, per quanto prevedibile). Che poi è uno sguardo sul presente di quello che Pier Virgilio Dastoli su Linkiesta ha definito «il grande cambiamento»: una fase, cioè, in cui le potenze economiche mondiali (su tutte Stati Uniti e Cina) interpretano il libero mercato internazionale in chiave spiccatamente protezionistica.
Sul tavolo dei leader dei Ventisette ci sarà, questa mattina, il rapporto dell’ex presidente del Consiglio italiano Enrico Letta sul mercato unico, incaricato a giugno 2023 dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel di redigere un compendio sul (mal)funzionamento del mercato unico a trenta anni dalla sua inaugurazione (con il trattato di Maastricht del 1993, che formalizzava le novità introdotte dall’Atto unico europeo del 1986). E, soprattutto, di indicare la strada da prendere per farlo funzionare meglio nel futuro prossimo per mantenere il vantaggio competitivo europeo.
La relazione di centoquarantasette pagine muove dalla constatazione che il mercato unico («la pietra miliare del processo di integrazione») non è mai stato effettivamente realizzato. Al contrario, la sua frammentazione in ventisette mercati nazionali sta condannando l’Ue a una rincorsa sempre più difficile dietro a Stati Uniti e Cina, nei confronti dei quali l’economia europea soffre di un cronico «deficit dimensionale».
Il mercato unico va completato, sostiene Letta, a partire soprattutto dall’integrazione di tre settori chiave: energia, telecomunicazioni e mercati finanziari. C’è bisogno che Bruxelles sviluppi una politica industriale strategica come è stato fatto a Washington con l’Inflation reduction act (Ira), tra le cui novità figura soprattutto l’utilizzo dei crediti d’imposta per incentivare l’innovazione tecnologica e finanziare la transizione verde. Ma come si finanzia l’Ira europeo?
Ci sono diverse opzioni, suggerisce l’ex presidente del Consiglio, che vanno dalla Banca europea degli investimenti (Bei) al debito comune, che però come sappiamo è un piatto indigesto per molte cancellerie a partire dai frugali (Germania in testa, anche nel dopo Angela Merkel). Forse più accettabile potrebbe essere, dice Letta, una «unione dei risparmi e degli investimenti», che raccolga i capitali privati europei e li trattenga (e reinvesta) in Europa per impedire che emigrino verso altre giurisdizioni – in primis, ancora, quella statunitense, che ci “costa” quasi trecento miliardi di euro l’anno. Ma anche qui andranno vinte diverse resistenze nazionali.
C’è poi il nodo, tutt’altro che secondario, dei sussidi governativi alle imprese, che Stati Uniti e Cina usano con disinvoltura ma su cui l’Ue si è azzoppata da sola con le regole sugli aiuti di Stato, la cui logica nazionale comporta distorsioni della concorrenza tra Stati membri. Letta propone di rivedere questo sistema e di introdurre un meccanismo di contribuzione a livello europeo per costituire una sorta di riserva comunitaria, cui tutti contribuiscono e da cui i Paesi con minor spazio di bilancio (come l’Italia) possono attingere. L’obiettivo è quello di finanziare iniziative e investimenti paneuropei, dalla doppia transizione verde e digitale fino alla difesa comune, passando per le infrastrutture energetiche.
Nell’Unione del futuro abbozzata da Letta c’è anche un fondo ad hoc per l’allargamento e una riduzione del carico burocratico e della confusione che deriva dal ricorso alle direttive da parte di Bruxelles: anziché queste ultime (che devono essere trasposte nei sistemi giuridici nazionali, e sono dunque una ricetta infallibile per la difformità legale tra i Ventisette) bisognerebbe utilizzare i regolamenti, direttamente vincolanti e immediatamente applicabili in tutti gli Stati membri.
Da accompagnare, tra le altre cose, a un codice europeo del diritto d’impresa per armonizzare le pratiche commerciali all’interno del mercato unico. Infine, naturalmente, c’è la necessità di un mercato integrato della difesa, da finanziare se non con apposite emissioni di debito (defence bonds) almeno con una linea di credito speciale del Meccanismo europeo di stabilità come si era fatto durante la pandemia.
L’erculea fatica di Letta non è comunque uno sforzo fine a se stesso. Piuttosto, costituisce parte di un ritmo triadico che dovrebbe determinare (almeno in teoria) la direzione verso cui l’Ue si muoverà nei prossimi anni. Il secondo momento coinciderà con la presentazione di un ulteriore rapporto altrettanto fondamentale, presentato da un altro ex presidente del Consiglio italiano nonché l’uomo generalmente accreditato di aver salvato l’euro nell’ora più buia: Mario Draghi. Il faro indiscusso dei riformisti nostrani (e periodicamente menzionato anche tra i corridoi di Bruxelles nel totonomi per i top job del blocco, cioè la presidenza della Commissione e del Consiglio europeo) illustrerà tra giugno e luglio una relazione sul tema della competitività europea, affidatagli dalla presidente uscente dell’esecutivo comunitario Ursula von der Leyen.
Le analisi sulla perdita di competitività del Vecchio continente si sprecano, ma bastano i seguenti dati per cogliere l’entità del problema che toglie il sonno ai leader europei. Il Financial Times certificava lo scorso novembre che l’economia dell’Ue rappresentava circa il sessantacinque per cento di quella statunitense, contro il novantuno per cento del 2013; contemporaneamente, il Pil pro-capite statunitense è più del doppio di quello dell’Ue, e il divario si sta allargando.
Ci si aspetta dunque proposte ancora più radicali dall’ex governatore della Bce, come del resto ha anticipato lui stesso parlando dal palco di un convegno sui diritti sociali a La Hulpe lo scorso martedì. L’Europa deve investire fiumi di soldi per mantenere il proprio peso nell’economia globale – stiamo parlando di circa cinquecento miliardi l’anno – e le parole d’ordine del prossimo ciclo istituzionale (ma anche dei successivi) dovranno essere “investimenti comuni” e “debito europeo”. I tre filoni indicati da Draghi sono l’uso efficace delle economie di scala a livello continentale, il finanziamento dei beni pubblici europei e la garanzia dell’approvvigionamento delle risorse.
E andrà anche ripensato il funzionamento delle istituzioni comunitarie: fuor di metafora, vuol dire che un’Unione a ventisette (e presto a trenta o anche più) non può rimanere bloccata dai veti incrociati al Consiglio. Batte sullo stesso concetto che ripete da mesi: l’Europa che conosciamo oggi era stata pensata per il mondo di ieri, ma quel mondo non esiste più e dunque bisogna ripensare l’Ue per adattarla alle sfide di domani. «Se vogliamo essere all’altezza dei nostri rivali», ha scandito Draghi, «avremo bisogno di un partenariato rinnovato tra gli Stati membri, una ridefinizione della nostra Unione che non sia meno ambiziosa di quella che i Padri Fondatori fecero settanta anni fa».
E se il coordinamento delle politiche economiche tra gli Stati membri non fosse praticabile (ipotesi tutt’altro che peregrina, data l’opposizione non solo tedesca ma anche olandese, lussemburghese e irlandese), l’ex di Goldman Sachs e Bankitalia suggerisce di ricorrere alle cooperazioni rafforzate tra i membri più volenterosi: integrazione differenziata, ad esempio, nell’unione dei mercati dei capitali. Una prospettiva da tempo caldeggiata, soprattutto, dalla Francia di Emmanuel Macron.
I lavori di Letta e Draghi sono stati redatti in coordinazione e vanno intesi come complementari tra loro. Entrambi sottolineano come il focus delle nazioni europee sia stato rivolto nella direzione sbagliata: per decenni la competizione è stata incentrata verso l’interno, con gli Stati membri che si sono fatti concorrenza a vicenda finendo per erodere i propri modelli sociali, mentre la competitività esterna dell’Europa continuava a diminuire.
Entrambi i rapporti parlano di sfide che l’Europa deve affrontare nel nome dell’unità, e si innestano su una visione politica che è pragmaticamente (e non ideologicamente) federalista – dimostrando cioè che la realizzazione di quella ever-closer Union di cui parlano i trattati è «un imperativo non solo economico ma anche strategico» (Letta dixit) per non affogare in un mondo sempre più frammentato e imprevedibile. E in una competizione internazionale nella quale l’Ue rischia di rimanere schiacciata, senza sapersi difendere e senza nemmeno i soldi per piangere.
Su queste due relazioni di alto livello dovrebbe quindi basarsi il terzo momento del ritmo che menzionavamo prima, cioè quello della pianificazione. Pianificazione che verrà declinata da un lato nella prossima Agenda strategica 2024–2029, cioè l’elenco degli obiettivi di medio termine del Consiglio europeo che funziona da input politico fondamentale per l’azione dell’Unione e, dall’altro, nelle priorità della nuova Commissione, che potrebbe (ma non necessariamente) essere guidata di nuovo proprio da von der Leyen. Per il quarto momento, quello dell’implementazione, dovremo attendere ancora. Ma già partire con le idee chiare e una solida roadmap non sarebbe male.