A seguito dell’arresto di mio marito Taghi Rahmani e di diversi esponenti del Consiglio degli attivisti nazional-religiosi e del Movimento per la libertà, il 19 marzo 2001 io e altri famigliari delle persone arrestate abbiamo cominciato a protestare contro le azioni illegali del Corpo delle guardie della Rivoluzione islamica, i Pasdaran, e contro il sistema giudiziario. Abbiamo organizzato manifestazioni davanti al ministero della Giustizia, al Parlamento e alla sede delle Nazioni Unite, rilasciato interviste sia in Iran che all’estero, e ci siamo rivolti alle autorità competenti. È questo il motivo che ha condotto alla mia convocazione presso la sezione 26 della Corte rivoluzionaria presieduto da Hassan Zareh.
L’inquirente dei Pasdaran che mi ha interrogata in una delle aule del tribunale aveva con sé copie di alcuni giornali ai quali avevo rilasciato interviste. Mi ha chiesto qualcosa al proposito, quindi mi ha condotta nell’ufficio della sezione 26, dove è stato ordinato il mio arresto.
Tutto questo esclusivamente su ordine dell’inquirente che aveva svolto l’interrogatorio. Il presidente della sezione, contattato per apporre la firma sul mandato, si è fatto attendere per quasi un’ora, per poi firmare le carte senza rivolgermi neanche una domanda. Dopodiché l’inquirente mi ha portata fuori di lì.
Passando dalla porta sul retro dell’edificio, siamo saliti su una Peugeot. Non appena mi sono seduta, mi hanno chiesto di abbassare la testa e mi hanno stretto una benda attorno agli occhi. Dopo aver percorso diverse strade, ho intuito, abbiamo oltrepassato un cancello, che conduceva a un altro edificio. Quindi siamo usciti. Il viaggio è stato lungo, e dopo un po’ mi è parso che il traffico, là fuori, fosse quasi svanito. Alla fine, ancora bendata, mi hanno fatta scendere dall’auto ed entrare in quella che mi è sembrata una specie di fortezza. Quindi mi hanno condotta a una sezione del carcere, fino a una piccola cella di isolamento.
Era la prima volta che mi trovavo in prigione. Era tutto molto strano: la cella era come una piccola scatola priva di finestre o di qualsiasi altra via d’uscita. C’era solo un minuscolo lucernario esattamente sopra la mia testa, da cui però quasi non entrava luce. Molto in alto, in una rientranza nel muro, era installata una lampadina da 100 watt che restava sempre accesa.
Avevo sentito dire che la cella di Hoda Saber veniva illuminata senza sosta da grandi proiettori ad alta potenza. Avevo inoltre sentito dire che le celle erano fatte in modo che ci stesse dentro una persona con le braccia tese, non di più. Che in prigione regnava un silenzio assoluto, e che la porta veniva aperta tre o quattro volte al giorno per permettere ai prigionieri di lavarsi le mani prima della preghiera. Ma anche che i detenuti in isolamento erano sottoposti a tortura bianca e lavaggio del cervello. Ora stavo sperimentando di persona ciò che avevo sentito e letto, ed ero conscia di quali terribili cose mi aspettavano. Di colpo ho cominciato ad avere paura.
Non sapevo dove fossi, né cosa ne sarebbe stato di me. L’idea delle punizioni che avrei potuto ricevere e l’incertezza riguardo al futuro erano come un veleno mortale. Mi chiedevo come fosse possibile arrivare a trattare una persona a quel modo. Cosa ne era del diritto di respirare, di camminare, di andare in bagno liberamente, di parlare con un altro essere umano, o anche solo sentirne la voce? L’idea di essere privata di questi diritti di base mi spaventava ancora più dell’accusa, del processo e della condanna.
Ero seduta ormai da ore, quando un uomo ha aperto la porta. «Fuori» mi ha detto. Mi sono infilata soprabito islamico e velo, la benda sugli occhi, e sono uscita. Una volta nel corridoio mi sono accorta di trovarmi in un reparto maschile. Mi ero stretta la benda così forte che non riuscivo a vedere niente, e camminare era faticoso. Un uomo mi precedeva, guidandomi.
Poco più avanti, dopo aver – credo – superato una porta, mi ha fatto girare a destra. Io ho obbedito e mi sono ritrovata a sbattere contro un muro. Due uomini hanno cominciato a ridere dietro di me, mettendomi a disagio. Mi hanno portata in una piccola stanza, hanno scattato qualche fotografia, per poi ordinarmi di rimettere la benda sugli occhi. Quindi sono stata riportata in cella. L’inquietante rumore della porta che veniva sbattuta mi ha come inflitto un dolore fisico.
Mi avevano consegnato della carta igienica colorata dicendomi che avrei dovuto infilarne un po’ sotto la porta ogni volta che avessi avuto bisogno di andare in bagno. Ho fatto quello che mi era stato detto, e la guardia è arrivata. Per prima cosa mi ha ordinato di coprirmi gli occhi. «No» ho risposto, «perché quello che è successo poco fa nel corridoio è stato irrispettoso, vi siete messi a ridere di me.» Al che lui ha richiuso la porta e se n’è andato. Ho posizionato la carta igienica fuori dalla porta più e più volte, ma dal momento che mi rifiutavo di rimettere la benda il risultato era sempre lo stesso: lui richiudeva la porta e se ne andava. Così ho cominciato a urlare, finché uno dei carcerieri, quello dall’aria più dura, mi ha ordinato di appoggiarmi con la schiena alla porta, in modo da non poterlo guardare. Sembrava uno dei responsabili del reparto. Gli ho raccontato ciò che era successo e perché non volevo più essere bendata.
Un suo collega aveva portato con sé una radio e la teneva accesa ad alto volume, perché nessun altro nelle celle vicine potesse sentirci. Erano molto attenti, in questo. Alla fine, mi ha ordinato di calare il velo sul mento e di abbassare la testa lungo il tragitto fino al bagno. Una guardia mi seguiva lungo il corridoio. Nell’ultima cella prima dei gabinetti, ho notato, i detenuti erano tutti uomini. Dunque non mi ero sbagliata, mi trovavo nel reparto maschile.
Avrei scoperto più tardi che il dottor Bani Asadi, il dottor Gharavi, Tavassoli, Sabbaghian e altri esponenti del Movimento per la libertà erano rinchiusi nelle celle vicine. Sono entrata nel bagno, le condizioni igieniche erano pessime. Sono uscita. Una guardia stava parlando a pochi passi da lì. Ho protestato, chiedendogli di rimanere un po’ più distante. Mi sono sentita rispondere che dove lui stesse non era cosa che mi riguardava, e di fare quello che dovevo fare. Mi ha indicato il lavabo, dicendomi di lavare le mani. C’era una saponetta Golnar mezzo consumata e umidiccia Una volta finito, sono tornata nella mia cella. Nel corridoio dovevo mantenere il più assoluto silenzio.
Quando è stato il mio turno di lavarmi, una guardia è arrivata con uno shampoo in mano e mi ha detto che avrei potuto farmi una doccia. Come la prima volta che ero stata portata in bagno, la guardia mi ha seguito restando un paio di passi dietro di me. Sono entrata con una certa apprensione. Sembrava tutto ancora più sporco! Ma non avevo scelta. Mi sono fermata sotto la doccia al centro della stanza, pur di non rischiare di toccare le pareti. Non ho mai chiuso gli occhi, nemmeno mentre mi lavavo i capelli. Avevo accostato la porta, ma non si poteva chiudere a chiave. Così, sbattendo le palpebre sotto il getto dell’acqua, continuavo a controllare che non entrasse nessuno. Non mi sentivo affatto al sicuro. Era inutile che discutessi ancora con le guardie perché mantenessero le distanze, l’unica era sopportare.
Copyright © Narges Mohammadi, 2020, 2023 First published in Persian by Baran Publishing (Sweden) under the title Shekanje Sefid (2020) Premessa © Shirin Ebadi 2022; Nota su Narges Mohammadi © Nayereh Tohidi 2022; Introduzione © Shannon Woodcock 2022 This translation of White Torture: Interviews with Iranian Women Prisoners is published by Mondadori Libri S.p.A. by arrangement with Oneworld Publications © 2024 Mondadori Libri S.p.A., Milano.
Tratto da “Più ci rinchiudono, più diventiamo forti” (Mondadori), di Narges Mohammadi, pp. 240, 19€