Poiché la vita è sceneggiatrice, la prima apparizione televisiva di Salman Rushdie dopo l’attentato è sponsorizzata dalla Pfizer. In particolare, da una pastiglia per il mal di testa nel cui spot c’è Lady Gaga. Anderson Cooper dice che Rushdie ha perso un occhio e non ha recuperato del tutto l’uso della mano sinistra, Rushdie risponde con la bocca un po’ storta perché i nervi della faccia pure sono stati danneggiati, e in mezzo c’è lo spot in cui Gaga fotografa una modella senza una gamba: immagino serva a dirci che nessun handicap è un vero handicap, o qualche puttanata postmoderna del genere.
«Non ci si può esprimere in maniera granché sofisticata con le dita dei piedi» è il modo in cui Rushdie riassume quella fine d’estate del 2022, quando si risvegliò intubato ma incredibilmente vivo. Un cretino (lui non lo nomina mai nel libro, dice che nella vita privata lo chiama «an ass», che è «uno stronzo» ma anche l’abbreviazione di «assailant» o «assassin»; ma nel libro neanche quello, solo «the A»: «Abbiamo avuto ventisette secondi insieme, non gli concederò altro tempo»), uno sconosciuto, un tizio qualunque lo aggredisce con un coltello.
È stato molto sfortunato e molto fortunato, gli dirà poi un medico. E quale sarebbe la fortuna, sbotta lui. Che quello lì non avesse idea di come ammazzare qualcuno a coltellate. Un aspirante assassino pure incompetente, scriverà poi Rushdie vendicandosi nel modo in cui si vendicano quelli la cui arma sono le parole (le parole sono il mio coltello, scrive: “Coltello”, “Knife”, è il titolo del memoir che esce oggi in tutto il mondo).
A un certo punto dell’intervista di “60 Minutes”, Anderson Cooper fa una cosa che nessun intervistatore nato povero farebbe, una cosa che fanno quelli così sicuri di sé da non temere che il silenzio faccia cambiare canale, i grandi comici o i figli d’una Vanderbilt: mette il timer sul telefono e sta zitto per farci percepire quanto siano interminabili i ventisette secondi lungo i quali l’incompetente ha accoltellato Rushdie (Rushdie li definisce: mezzo minuto d’intimità in cui la vita incontra la morte).
Quando si sveglia intubato e la moglie gli chiede di rispondere muovendo le dita dei piedi se la sente, e sulla sua faccia pende «come un uovo alla coque» l’occhio di cui l’attentatore ha reciso il nervo ottico, intervistatore e intervistato concordano che sia prioritaria la sorpresa per il miracolo d’essere vivo, miracolo che però non ne scalfisce l’ateismo. «Non ha avuto rivelazioni?». «Non ho avuto rivelazioni, a parte quella che non esistono rivelazioni».
(Non ho l’edizione italiana del libro, quindi non so se quel soft-boiled egg che sul Corriere è diventato un uovo sodo sia uno svarione della traduzione Mondadori o dell’intervistatrice italiana, e mi chiedo se il lusso di trovare gravissimo che l’uovo alla coque diventi sodo sia prerogativa di noialtri cui nessuno ha mai cavato un occhio tentando d’ammazzarci. Forse il vero privilegio è questo: non avere apocalissi private che ci distraggano, permetterci di concentrarci sull’attentato perpetrato dalla traduttrice di Yasmina Reza che la fenêtre condamnée la traduce come «condannata» invece che come «murata»).
Tempo fa Andrew Wylie, agente di Rushdie, ha raccontato che all’inizio Rushdie diceva di non voler scrivere di questa storia, ma lui sapeva che ne avrebbe scritto. Come faceva a saperlo? «È uno scrittore». Lo stesso Rushdie dice che sì, prima dell’attentato aveva cominciato a scrivere altro, ma poi ha capito che finché non si liberava di questa vicenda come faceva a scrivere altro.
E francamente la domanda, che gli fanno in tutte le interviste che ho letto, appare deliziosamente imbecille; è uno scrittore, negli anni Ottanta l’Iran – già allora paese beniamino della sinistra – mette una taglia sulla sua testa perché “I versi satanici” offenderebbe Maometto, dopo un decennio la fatwa viene revocata, finalmente può vivere senza precauzioni, passano altri venti anni abbondanti, e un cretino lo accoltella: di che altro dovrebbe scrivere, di grazia?
(Sul periodo della fatwa, Rushdie aveva già scritto “Joseph Anton”, che però era un romanzo in terza persona. Stavolta, dice al New York Times, gli pareva che la vicenda valesse la prima persona, «se uno ti accoltella è parecchio personale». «Eccomi trascinato di nuovo nell’argomento indesiderato», scrive in “Knife”: è tornato a essere quello-della-fatwa, tanto vale scriverne lui, «rispondere alla violenza con l’arte»).
«C’è un valore nell’ascoltare voci che ci offendono?» «Un valore enorme: come teniamo testa a noi stessi se non lasciamo mai che nessun altro ci tenga testa?». Cooper e Rushdie stanno parlando della politica identitaria, della tendenza a offendersi che è passata da destra a sinistra, dagli anziani tromboni ai giovani fragili, ma è chiaro che non sarebbe la stessa cosa se ne parlassimo io o voi, cui nessuno ha mai messo una taglia sulla testa a causa di parole contenute in un romanzo.
«Si sente meno di quanto fosse prima?» «No: sento più la presenza della morte». Cooper la domanda gliela fa sulle sue attuali invalidità, è cieco da un occhio, il che è un continuo promemoria di quel che è successo. L’esperienza di quasi morire, scrive in “Knife”, non è per niente sovrannaturale o spirituale, anzi è molto corporea: «Il mio corpo stava morendo, e mi stava portando con sé».
Rushdie scrive che quel tizio vestito di nero, con la mascherina e un coltello, quando lo vede arrivare con la coda dell’occhio ancora non sa che «sarebbe stato l’ultima cosa che il mio occhio destro avrebbe mai visto». Pensava, mentre quello lo accoltellava, in quei ventisette secondi prima che riuscissero a fermare l’aspirante assassino e che soccorressero lui, che gli avesse rotto la mandibola, che sarebbe rimasto senza denti. La moglie dice a Anderson Cooper che quando l’ha rivisto era completamente ricoperto di punti di sutura.
La parola più abusata e imbecille di questo secolo, «empatia», prevede che si sappia sentire il sentire altrui, comprendere le esperienze mai provate. E invece c’è uno che si sveglia con un uovo alla coque al posto dell’occhio, quasi due anni dopo dice a Cooper che ancora non si è del tutto abituato, ancora non sa prendere bene le misure al suo essere diventato mezzo cieco, e io penso che mi ammazzerei per molto meno, che svegliarsi in quelle condizioni e voler continuare a vivere richieda una forza d’animo non alla mia portata.
Ma, appunto, non posso saperlo. Chissà cosa ti scatta, magari una brama di vivere che non hai se non sei mai stato per morire, sufficiente a farti pensare che vivere con quelle ferite sia già tantissimo, rispetto a essere morti o in carcere in attesa di processo o chissà. Certo, una delle coltellate gli ha cavato un occhio, ma non gli ha danneggiato il cervello, mancava pochissimo, stava subito dietro l’orbita oculare, bisogna vedere il bicchiere mezzo pieno, no? (Alla Bbc ha detto che questa cosa dell’occhio lo fa incazzare ogni giorno, se si versa l’acqua deve stare attento a centrare il bicchiere).
In “Knife”, Rushdie scrive rivolgendosi a the A che, da quel giorno, la sua (sua di Rushdie) vita è migliorata, mentre la sua (dell’aspirante assassino) è andata in rovina, «hai fatto una pessima scommessa, e hai perso: quello fortunato sono stato io». Ci crede davvero, o è un fingitore come il poeta di Pessoa, così professionale nel fingere che «arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente»?
Al New York Times cita “Spamalot”, il musical dei Monty Python che aveva allestito nientemeno che Mike Nichols, e la scena degli appestati che saltano su dalle carrozzine cantando che non sono ancora morti: si sente davvero bicchieremezzopienisticamente così, o sta tentando di convincere sé stesso innanzitutto? Non ne ho idea, mica m’hanno mai sfregiata tentando d’ammazzarmi. Non ne ho idea, ma: fa differenza?