Ieri alla Camera Carlo Calenda e alcuni dirigenti di punta di Azione (il capogruppo alla Camera Matteo Richetti, la vicepresidente Elena Bonetti e il responsabile giustizia Enrico Costa) hanno presentato un disegno di legge delega per la revisione delle norme in materia di finanziamento privato dell’attività politica.
Nel presentarlo, il leader di Azione ha rivendicato il dovere del legislatore di intervenire «su un baco del sistema normativo che disciplina il rapporto tra imprese e politica» e che da una parte autorizza, ad esempio, un concessionario a finanziare il vertice dell’autorità politica o amministrativa concedente e dall’altra parte, proprio a partire da questo irrisolto conflitto di interesse, giustifica il sospetto di accordi corruttivi e innesca inchieste giudiziarie finalizzate a dimostrare il carattere illecito di transazioni formalmente legittime. Un cortocircuito esplosivo.
Dietro la proposta di Azione c’è dunque un duplice obiettivo: quello di superare i legami oggettivamente equivoci tra decisori pubblici e percettori diretti dei vantaggi della loro decisione e quello di ripristinare una condizione di certezza del diritto, eliminando ambiguità e zone grigie che espongono i politici, come gli imprenditori, al rischio di rovinosi incidenti giudiziari.
Il criterio utilizzato nella proposta di legge di Azione è semplice ed è quello di prevedere che imprese e società, i cui titolari e rappresentanti sono incompatibili con cariche elettive e di governo, non possano neppure finanziare i partiti e i loro candidati.
Le incompatibilità previste dalla legge elettorale sono, per così dire, trasferite sul piano politico, con la previsione del «divieto di contributi, prestazioni e altre forme di sostegno ai partiti, ai movimenti e ai gruppi politici, a ministri, sottosegretari, presidenti di regione, presidenti di provincia, sindaci, amministratori pubblici, membri di organi elettivi e candidati ad essere eletti a tali cariche», nonché alle associazioni e fondazioni equiparate ai partiti dalla legge, da parte di imprese in oggettivo conflitto di interesse.
Tra queste, in particolare, vi sono quelle «vincolate contrattualmente con lo Stato o con altre amministrazioni pubbliche in base a rapporti di concessione o che, nei due anni precedenti, abbiano svolto la propria attività prevalentemente in base ad appalti di opere, servizi e forniture pubbliche», quelle «sussidiate dallo Stato con sovvenzioni continuative o con garanzia di assegnazioni o di interessi», nonché quelle «che, nei sei mesi precedenti, su propria istanza, abbiano partecipato a un procedimento per l’ottenimento di un provvedimento amministrativo di natura non vincolata, ovvero abbiano partecipato a una procedura per l’acquisizione di beni pubblici».
L’estrema varietà e complessità di queste incompatibilità è riconosciuta dalla stessa proposta di legge, che infatti prevede una delega al Governo per stabilire, di concerto con il Parlamento, le «soglie di rilevanza economica al di sotto delle quali i divieti sono applicabili solo rispetto ai soggetti che amministrano il territorio nel quale la società o l’impresa svolge la propria attività in via prevalente» e i «parametri assoluti e percentuali in base ai quali l’attività di una società o impresa si considera svolta in modo prevalente nei confronti di soggetti pubblici».
Tradotto con un esempio: ha senso impedire a un concessionario balneare di finanziarie la campagna elettorale del sindaco che gli ha rilasciato la concessione, ma sarebbe eccessivo impedirgli di dare un contributo a un candidato alle elezioni europee. Oppure, ha senso pensare che un’impresa che deriva la quasi totalità del proprio fatturato da commesse pubbliche, legate a un alto grado di discrezionalità amministrativa, non possa finanziare il partito del Ministro delle infrastrutture (l’esempio è di Calenda, proprio a proposito della Lega e dell’esplosione del suo fundraising), mentre è incongruo impedire di finanziare partiti e candidati a un’impresa di servizi operativa quasi esclusivamente sul mercato privato, che da un appalto pubblico ha tratto una quota infinitesimale dei propri ricavi.
Calenda ha concluso che se nel caso Toti sono ancora tutti presunti innocenti e non ha senso discutere o scommettere sull’esito dell’inchiesta, la responsabilità dei partiti – a cui ieri è stata inviata la proposta di Azione – del Parlamento e del Governo è di intervenire su un quadro normativo ambiguo e potenzialmente criminogeno, che alimenta il pregiudizio e compromette la reputazione della politica. Insomma, meglio prevenire che curare.