Bruxelles o Roma?Alle elezioni europee si candidano tutti (e nessuno)

La politica del nostro Paese si dimostra ancora una volta priva di una forte educazione comunitaria, così da trasformare un appuntamento sovranazionale in una sfida tutta interna, che compatta l’elettorato ma che rende lontana e incomprensibile la rappresentanza nel Parlamento Ue

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Tutti i principali leader di partito italiani sono nelle liste dei candidati alle europee, anche se è praticamente certo che, in caso di elezione, rinunceranno al seggio a Bruxelles per conservare il loro ruolo nazionale. Giorgia Meloni, Elly Schlein, Antonio Tajani, Emma Bonino, Carlo Calenda; non abbiamo notizie dei due liocorni, ma è probabile che si esprimano nelle prossime ore. Unica eccezione, finora, è Matteo Renzi, che ha annunciato che, se eletto, andrà al Parlamento europeo; tuttavia, il comportamento tenuto in passato in caso di annunci del tipo «se, allora» autorizza qualche scetticismo.

È chiaro che la candidatura delle leadership ha la funzione di compattare elettori e militanti, creando una identificazione più forte e immediata con la lista. È ancora più chiaro, a chiunque abbia quel minimo di disincanto che serve per leggere l’attualità politica, che la scelta è funzionale alla volontà di usare per le europee per «contarsi» sul piano nazionale: non a caso, il dibattito sull’opportunità per i leader di candidarsi, a questo giro, è iniziato dai rumors che davano Giorgia Meloni come capolista di Fratelli dItalia in tutte le circoscrizioni, come poi è avvenuto.

Se il guadagno, se così si può definire, è chiaro nel breve termine, nel lungo termine, il prezzo rischia però di essere più salato in termini di qualità del dibattito politico. Abituare l’elettorato a vedere ogni voto europeo come una partita tutta nazionale tra leader rende più difficile far comprendere il funzionamento della rappresentanza europea e l’importanza di mandare a Bruxelles figure col profilo adatto, piuttosto che esponenti locali in attesa dell’occasione giusta per un riposizionamento nazionale o popstar che diventano note solo a causa dell’attenzione riservata loro da media spasmodici di visualizzazioni, contenuti o minutaggio. Queste, del resto, erano le motivazioni con cui, ad esempio, Carlo Calenda aveva spiegato la sua scelta di non candidarsi, salvo poi annunciare il suo ingresso in lista, adducendo proprio la necessità di contarsi.

Alle elezioni del 2019 si era registrato un discreto passo avanti nell’«educazione europea» di partiti ed elettorato, che aveva fatto ben sperare nell’inizio di un nuovo modo di guardare al piano europeo e sulla base del quale, oggi, risulta difficile non vedere la corsa alla candidatura come un passo indietro e un’occasione persa per consolidare buone prassi. Oggi, l’unico leader non candidato è Salvini: se non avesse candidato Roberto Vannacci, rischierebbe di apparire lui come quello più responsabile e rispettoso del piano europeo, il che è tutto dire.

Ci troviamo alla viglia di un voto che aprirà una legislatura che, tra Green Deal e tensioni geopolitiche, sarà chiamata più di altre a prendere decisioni che caratterizzeranno il loro e la natura dell’Ue come mai prima: la domanda è se possiamo permetterci un dibattito come quello che stiamo vedendo, o se le forze progressiste, tutte e a vario titolo, non avrebbero potuto contribuire più efficacemente a proseguire sul percorso intrapreso.

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