Martedì sono andata a cena fuori. Non è un evento epocale – mentre ci lamentiamo che nessuno è mai stato povero come noi, facciamo in media la vita che un paio di generazioni fa facevano solo i ricchi: prendiamo disinvoltamente aerei, andiamo continuamente al ristorante – ma è un piccolo esempio del disastro organizzativo che è essere adulti in questo secolo.
Mettere a tavola più persone, lo sa chiunque abbia una vita normale, richiede quattrocento messaggi. Tizia quella sera non ha la babysitter, Caio quell’altra sera ha il padel, Sempronia il mercoledì non esce perché c’è la Sciarelli – eccetera. È forse il vero segnale d’ingresso nell’età adulta, più delle rate del mutuo o dello spegnere le luci quando si esce da una stanza: sei diventato grande quando organizzare una cena richiede un lavoro di tessitura che neanche organizzare un consiglio d’amministrazione.
(Sì, lo so che sui ragazzini di oggi l’ecologia ha attecchito più che su noialtri, e quindi loro spengono le luci più degli adulti. Ma sono così vegliarda che per me non lasciarsi lampadine accese alle spalle è ancora un tic di mio padre, nato prima che l’Italia entrasse nella seconda guerra mondiale. Quando mi accorgo al mattino che nell’ingresso, in quella parte della casa in cui non vado mai se non per uscire e rientrare, è rimasta accesa la luce dalla sera prima, io non penso «Oddio, il pianeta, le risorse, il futuro». Io penso: oddio, meno male che è morto).
Dunque, martedì. Tutta la trattativa io non posso il martedì 7 perché ho la tal riunione alle sei e non so a che ora finisco, io non posso il mercoledì 8 perché ho il ginecologo alle sette, allora facciamo la settimana dopo, tutta quella trattativa lì è stata fatta la settimana di Pasqua.
Giacché, all’abituale delirio per riuscire a mettersi a tavola insieme avendo vite adulte, si è aggiunta RyanAir. Chiunque frequenti città che non siano Milano o Roma o Venezia, cioè già devastate dai turisti prima dei voli a basso costo, sa che disastro sia il turismo di massa.
Da quando è diventata aeroporto servito da RyanAir, persino Bologna – una città senza monumenti, e con una fama culinaria usurpata – è zeppa di turisti come la spiaggia di Riccione nel 1965 (se non avete mai visto “L’ombrellone”, è il momento di recuperarlo: è su Prime).
Tempo fa ho capito che, quando nessuno vorrà più pagarmi per scrivere, avrò un mestiere di ripiego. Ero da Terzi, bar bolognese noto per la bontà del cappuccino e la malmostosità dei baristi (Terzi sta a Bologna come S. Eustachio sta a Roma), e ho visto una guida raccontare un sacco di fregnacce a due tavolate di turisti americani che aveva portato lì a bere l’espresso – il cicchetto d’acqua che vi danno va bevuto prima, spiegava sussiegoso – e che successivamente avrebbe portato a vedere le sfogline, cioè quelle che fanno i tortellini. Altrove i turisti vanno a vedere “L’ultima cena” o Michelangelo; a Bologna vanno a guardare il cibo.
Cibo di cui però – se non hai una guida turistica che lo faccia per te – non è semplice organizzare la fruizione. L’eccesso di aspiranti clienti, infatti, fa sì che un normale tavolo in un ordinario ristorante vada prenotato con anticipi che richiedono vite più organizzate delle nostre. Quindi, per andare a cena martedì, tutti i commensali hanno dovuto avere contezza delle loro agende un mese prima. Capite bene che così non è vita.
Mi sono perciò sentita pizzinata quando il ministro di molte cose tra cui le foreste, Francesco Lollobrigida, intervenendo nel corso della Giornata della ristorazione (ve l’avevo detto che ogni giorno era giornata di qualcosa), ha citato il numero del magazine di costume del New York Times dedicato ai viaggi e alla pasta italiana (siamo pur sempre una repubblica fondata su «al dente»), in particolare l’articolo di Frank Bruni sui pranzi domenicali all’italiana.
Nella sintesi lollobrigidiana, negli Stati Uniti c’è il mito della convivialità italiana, «un modo di stare insieme, di riunirsi, di dialogare, di parlare, di creare quel benessere che intorno alla tavola i nostri ristoratori sanno creare». Ah, vedi. Io pensavo che i nostri ristoratori sapessero soprattutto servirti bianchi caldi e innervosirsi se gli chiedi di non versarteli finché non sono stati nel ghiaccio, soprattutto farti il conto su tovagliette di carta perché gli ottanta euro a testa preferiscono riceverli in nero e comunque non sono abbastanza per pagare il lavaggio di tovaglie vere.
(Tempo fa Luca Bottura, inveendo su Twitter contro un ristorante bolognese, scrisse che sperava nel fallimento di RyanAir. Fu un momento illuminante circa il fallimento dell’istruzione obbligatoria e della comprensione del testo: centinaia di indignati non vedevano il nesso con RyanAir e stigmatizzavano ch’egli s’augurasse il fallimento d’un’impresa e conseguenti licenziamenti. Che l’opinione pubblica non si estingua cadendo in tombini segnalati dal cartello «attenzione, tombino» è un mezzo miracolo).
Però è vero che gli americani, al ritorno dalle loro gite in Italia, trasecolano innanzitutto di due cose: che noialtri si cammini (nell’America che non è New York nessuno fa duecento metri a piedi), e che stiamo due o più ore seduti a tavola. Nei ristoranti americani ti mettono davanti il conto quando ancora hai la forchetta col penultimo boccone in bocca, e infatti sono un paese con una produttività decente. Noialtri andiamo a picco, ma solo dopo l’ammazzacaffè.
Lollobrigida probabilmente spegne la luce quando esce dalle stanze, perché dice che «la convivialità trova all’interno della famiglia un luogo naturale, purtroppo sempre meno», e sembra i nostri genitori quando si lamentavano che preferissimo andare fuori dal Burghy a limonare che stare a tavola con loro. Burghy ha fatto in tempo a chiudere, e gli adulti non hanno smesso di lamentarsi che i figli si annoino a stare a tavola.
All’agenzia Vista, Lollobrigida – di grandissima lunga il ministro più di sinistra che questo paese abbia mai avuto – fa un elogio del multiculturalismo: ogni nostro piatto, dice, «racconta una parte della nostra storia, il nostro dna formato da tremila anni di contaminazioni di tanti popoli, tante culture».
Ma, soprattutto, Lollobrigida offre una soluzione per tutto, Ucraina, Israele, Myanmar, Mozambico. «Quanto è importante stare a tavola, discutere, ragionare, bere un bicchiere di vino, dialogare? Quante guerre non ci sarebbero state di fronte a cene ben organizzate?». Ha ragione, cribbio. Il vino è fondamentale – nessuno vuole a tavola un astemio – ma l’organizzazione di più.
Se non per risparmiarci lo stress e la perdita di tempo, si proceda quindi a scopo di pacifica tenuta dei confini a riconvertire i navigator del reddito di cittadinanza in facilitatori di cene per adulti stressati, i quali sennò rischiano l’insorgere dello spirito bellico. Alla trecentesima mail «no io quella sera ho il torneo di minigolf», «no io la sera dopo ho il burraco», è chiaro che ti vien voglia di invasione armata.