Ci si chiede spesso se i giovani vogliano ancora mettersi ai fornelli, se il lavoro nella ristorazione possa avere davvero un qualche appeal reale al giorno d’oggi, se esista un modo per arginare la fuga dalle cucine. Si cerca di trovare delle soluzioni, di cambiare gli assetti della professione e di fare quasi opera di convincimento verso le nuove generazioni con discorsi che riguardano la gavetta, la fatica e l’impegno. La risposta però potrebbe arrivare da una semplice domanda: perché si sceglie di diventare un cuoco o una cuoca? Il senso sta tutto lì e a farci ragionare sulla questione arriva il pensiero, dritto, immediato e senza troppi fronzoli di Antonia Klugmann, che chiacchiera con una commossa Anna Prandoni sul palco della seconda giornata del Gastronomika Festival.
«Ho deciso di fare la cuoca per l’onesta intellettuale con cui affronto il lavoro. È stato il desiderio profondo di sentirmi piena in quel che faccio a spingermi in questa direzione e L’Argine a Vencò è stata la risposta a questo desiderio». Una motivazione, forte come una grande storia d’amore. Quasi professione di fede, un patto fatto con la propria anima, che ammette domande ma non dubbi sulla sostanza.
«Invito sempre i miei ragazzi in cucina a farsela questa domanda, perché a volte si affronta la giornata lavorativa per un senso del dovere e di competizione, per la voglia di fare ciò che è giusto, anche in termini di carriera. Ma dietro questo lavoro c’è troppa fatica, è quella domanda lì, perché si vuole lavorare in cucina, dovrebbe esserci sempre. Chi non se la fa, si trova insoddisfatto: magari non subito, magari dopo dieci anni». Eccolo lì il bandolo della matassa, quel quid che un giorno ti comincia a mordicchiare l’anima e improvvisamente ti ritrovi a voler cambiare strada, a chiudere per sempre con un lavoro, che probabilmente non ti è mai appartenuto davvero. Succede in tutti i settori professionali, ma in quello della ristorazione un poi di più. È tanta la fatica, troppi i problemi: senza una reale motivazione non si va lontano.
Lei, Antonia Klugmann, questa cosa l’ha provata sulla sua pelle: «Fin tanto che non ho trovato esattamente la cosa che mi interessava, nulla poteva spingermi ad essere poco più che mediocre. Poi, quando ho capito cosa volessi davvero, sono diventata una sorta di serial killer. Qualcosa dentro di me si è smosso. L’ho capito dopo la prima settimana in cucina che quello sarebbe stato il mio e lo sarebbe stato per sempre. Come una grandissima storia d’amore. E non c’è stata mai nessuna problematica che mi abbia mai separato dalla cucina». A vederla, con quel suo sorriso calmo e dolce, sembra essere l’impersonificazione della calma. Eppure i suoi occhi trasudano un carattere vulcanico. È la consapevolezza di quello che è, di quello che desidera e vuole ad averle donato una stabilità, in grado anche di essere mutevole, ma salda. Perché la sua, come quella di tutti, è una personalità che muta. Lo si capisce anche di fronte ai suoi piatti. Non esiste un suo signature, qualcuno dalla platea glielo chiede «quanto si può capire della sua personalità dal menu?». No, non c’è quella ricetta che la rappresenta appieno. È il suo percorso a disegnare il suo essere, il suo carattere. Oggi è qualcosa, domani sarà qualcos’altro. L’importante è che i puntini si uniscano sempre e comunque. «Io sono una persona complessa e non mi ripeto. I piatti che faccio, a un certo punto muoiono e non tornano, per quanto possano piacere ai clienti. Il menu è un tornasole idi quello che sono in quel preciso momento. Tutti noi cambiano e voglio che il mio cibo sia il cartina di questo cambiamento. Per fare ciò ci deve essere molta sincerità nel rapporto con la cucina». Ritorna la stessa sinfonia, quella storia d’amore che diventa perpetua nel tempo e, come tutte le storie d’amore che si rispettino, deve essere alimentata dalla passione, dalla ricerca di attenzione nei confronti dell’altro. Antonia è una che vuole vivere guardando le cose da vicino, dentro nel profondo. La superficialità non fa parte del suo bagaglio culturale, lo stesso che l’ha convinta a mettere anima, cuore e fede nel suo territorio, in un Friuli Venezia Giulia che è regione complessa da comprendere, ma che diventa il centro di tutto nella sua molteplicità culturale e valoriale: «Siamo un paese fatto di province. Io ho creduto molto nel mio territorio, perché si può essere provinciali in qualunque posto del mondo, anche in una grande città e si può essere eccezionali anche stando alla periferia dell’impero».
«Com’è essere una chef donna?» – chiede Anna Prandoni. Lei sorride: «Che domanda complicata». No, non è un settore facile per il gentil sesso, se così possiamo ancora arcaicamente definirlo. In realtà Antonia non si è mai sentita diversa dai suoi colleghi uomini. Ricorda quando, tempo addietro, si trovava impegnata in uno stage da Bruno Barbieri: era l’unica donna, ma non ci ha fatto caso. «In fondo il problema è a casa, nell’educazione diversa che si dà ai bambini e alle bambine. Ed è un peccato, perché il talento è diviso a metà e nei settori dove le cose non stanno così il talento ce lo perdiamo». Si commuove, Antonia Klugmann. Forse ascoltarsi negli occhi degli altri le rende quella consapevolezza di cui va tanto fiera. Obiettivo raggiunto.