Insicurezza mediaticaIl controverso disegno di legge di Piantedosi sulla sicurezza

Si avvicinano le elezioni europee e accelera l’esame della proposta presentata lo scorso gennaio dal ministro dell'Interno. Ma giuristi e associazioni a tutela dei detenuti lamentano una deriva repressiva ai limiti della costituzionalità

Mario Ujetto/LaPresse

Il disegno di legge (ddl) sulla sicurezza del governo Meloni interviene duramente con un approccio securitario immotivato trasformando la percezione di insicurezza, ben spesa anche in campagna elettorale, in un testo che ambisce a intervenire in situazioni di disagio sociale tramite la repressone penale. E soprattutto sopraeleva con disposizioni ad hoc la tutela delle forze di polizia rispetto a quella garantita ad altri pubblici ufficiali. «È inaccettabile e non degna di uno stato liberal-democratico questa sopraelevazione identitaria delle forze di polizia – spiega a Linkiesta Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone –. Con questo ddl si autorizza un’immunità funzionale che mette profondamente in discussione il principio di uguaglianza». È un testo che tradisce lo spirito ideologico della maggioranza e mostra un assoluto impoverimento politico. Che agisce e legifera di riflesso a quelle che sono le vicende mediatiche contingenti.

Tra le proposte del ddl, ora in discussione in commissione affari costituzionali e commissione giustizia, c’è la possibilità di consentire agli agenti di pubblica sicurezza di detenere un’arma diversa da quella di ordinanza, anche quando non sono in servizio. Una necessità, spiega il testo, che gli agenti di sicurezza avrebbero comunicato direttamente, senza mezzi termini. Per capirci, qualora la proposta dovesse passare, un agente non in servizio avrebbe la possibilità di girare, da libero cittadino, con un’arma priva di licenza diversa da quella di ordinanza. Una facoltà riservata solo agli organi di polizia, e che non viene estesa agli altri pubblici ufficiali. «È una previsione che lascia non poche perplessità, perché gli agenti di pubblica sicurezza sono tali nell’esercizio delle loro funzioni, non fuori, dove invece sono come gli altri cittadini», ha spiegato nel suo intervento in commissione Paolo Bonetti, professore di diritto costituzionale all’Università di Milano Bicocca.

Un tentativo di andare oltre ai protocolli, che sembra voler avvicinare il Paese al modello americano, dove la facilità dell’accesso alle armi è cosa comune, ma che non ci appartiene. «Trovo che questa sia la disposizione più scioccante – spiega a Linkiesta Lucia Risicato, professoressa di diritto penale all’Università di Messina –. Di una norma del genere non solo possiamo, ma dobbiamo fare a meno. Perché in Italia non c’è alcuna urgenza che possa ammettere un intervento privilegiato di questo tipo. Parliamo di una disposizione che non si giustifica sulla base di dati allarmanti, ma sulla percezione mediatica della criminalità percepita».

Dello stesso spirito anche le altre disposizioni, che introducono ulteriori fattispecie di reato a un codice penale già ricco. Tutta una sezione è dedicata a intervenire duramente nella repressione di diverse forme di dissenso. Quello promosso con il blocco stradale degli ecoattivisti, punito anche quando esercitato solo con il proprio corpo, ma soprattutto quello di rivolta penitenziaria, punita qui anche quando si esprime come semplice “resistenza passiva”, precisa il ddl. «Anziché depenalizzare o incentivare pene alternative o interdittive siamo ossessionati dalla pena carceraria nonostante le condizioni ormai invivibili. E anche la resistenza passiva, che può essere anche il semplice sciopero della fame viene così punita», continua Risicato.

Per questo nuovo reato il ddl prevede la pena della reclusione, che forse a causa di un lapsus freudiano viene estesa anche a tutti coloro si macchino di un reato simile all’interno di un Centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) o di un Centro di accoglienza straordinaria (Cas). La proposta del Governo non solo equipara la detenzione in un istituto penitenziario con la permanenza in un centro di accoglienza, ma per chi commette il reato in questi centri commina fino a vent’anni di carcere qualora tre o più persone “promuovano, organizzino, o dirigano una rivolta”. E consente all’autorità giudiziaria di poter condannare alla pena della reclusione anche chi legittimamente esercita il proprio diritto alla disobbedienza civile tramite una “resistenza passiva”.

«Stiamo assistendo a una criminalizzazione di qualsiasi tipo di dissenso che arriva a punire anche quelle che in carcere sono molto spesso semplici manifestazioni di insofferenza, non rivolte – spiega Gonnella –. È un approccio che produrrà un effetto sul fronte penitenziario, punendo coloro che sono già vulnerabili con altri anni di carcere e contribuendo a rendere ancora più ingestibile un sistema già piegato dal sovraffollamento». Dello stesso avviso si è espresso anche l’ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick in commissione affari costituzionali. Che ha sottolineato quanto sia pericoloso l’accostamento tra gli istituti penitenziari e i vari Cpr e Cas, mettendo in luce anche possibili scenari di incostituzionalità: «La previsione della rivolta in carcere e nei centri di migranti mi lascia sconcertato. Ma soprattutto l’introduzione della condotta della resistenza passiva, cioè della disobbedienza. Credo che questo apra un grosso problema ai sensi dell’articolo 13 della Costituzione», che all’ultimo comma vieta qualsiasi forma di violenza fisica o psichica nei confronti di soggetti ristretti, (nrd).

In un Paese con più di sessantamila detenuti e un sovraffollamento carcerario ben oltre i limiti è inspiegabile e irragionevole un approccio così spinto alla carcerazione. Tentativi di reprimere il dissenso, soprattutto quando espresso da chi si trova in condizioni già estremamente precarie, non può che portare a un peggioramento della vita negli istituti. Che oltre a coinvolgere innanzitutto i detenuti trascina con sé anche tutti gli operatori della polizia penitenziaria, gli educatori e tutto il personale che in quegli spazi lavora. Con più di trenta suicidi in carcere solo quest’anno e più di un processo per tortura a carico di agenti della polizia penitenziaria italiana è incredibile che questo Governo immagini di risolvere qualcosa con provvedimenti al limite del costituzionale. Superare l’insofferenza al dissenso e imparare a guardare dentro gli istituti di pena può essere forse un buon punto di partenza per un intervento sul fronte della giustizia che abbia un atteggiamento più umano.

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