I paragoni tra vecchie e nuove generazioni non risparmiano nessun settore lavorativo, tantomeno quello della ristorazione. Si è aperto con questo tema – spinoso ma stimolante – il secondo tavolo dell’hackathon del Festival di Gastronomika 2024. Moderato dalla giornalista de Linkiesta Lidia Baratta e in collaborazione con la Federazione italiana pubblici esercizi (Fipe), il confronto dal titolo “La professione non ha prezzo” ha subito fatto emergere la necessità di un cambio di paradigma: nel 2024 gli under trenta hanno una maggior sensibilità per l’equilibrio vita-lavoro, e la rivoluzione deve partire dall’approccio dei ristoratori (senza colpevolizzare i giovani).
Uno chef poco più che trentenne ha detto che la qualità dei curriculum che arrivano nel suo ristorante – prossimo all’apertura – non è altissima. Spesso, secondo lui, «sembra quasi di dover convincere e invogliare i giovani a lavorare in un determinato posto». Gli chef di domani, in realtà, fanno fatica a trovare una motivazione interiore per superare determinati scogli. La fonte di questa motivazione non è di natura economica, ma riguarda il clima che si crea nel contesto lavorativo. Ed ecco che i capi, in alcuni casi, si trovano costretti a ricoprire anche il ruolo (scomodo?) di fratelli maggiori, capaci di fornire loro lo stimolo extra per prendere il ritmo. Su questo, l’opinione dei partecipanti si è spaccata in due: «È normale e giusto che sia così, abbiamo un ruolo sociale» o «non siamo mica i genitori di questi ragazzi, non dobbiamo educarli noi».
Sta ai professionisti del settore trovare una formula efficace, un nuovo equilibrio in grado di considerare le esigenze di una generazione che – per fortuna – non è disposta ad accettare le dinamiche tossiche sul posto di lavoro. Avere tra i trenta e i quarant’anni oggi, però, può essere un vantaggio anche nel mondo della ristorazione: le “generazioni di mezzo” hanno toccato con mano il vecchio e il nuovo paradigma, acquisendo – auspicabilmente – gli strumenti e le sensibilità necessari per coniugare gli obiettivi di business con le necessità dei giovani lavoratori.
Non tutti, però, si sono mostrati allineati: «Puoi trovare tutte le nuove formule che vuoi, ma alla fine siamo noi responsabili a sacrificarci di più». Una delle novità più interessanti emerse dal tavolo è la differenza di età sempre più sottile tra capo e giovane dipendente, almeno nel mondo della ristorazione. Oggi ai ragazzi non si chiede solo di cucinare, ma di comunicare, creare, tradurre i pensieri in elementi concreti: le nuove generazioni, sotto questo punto di vista, sono molto più avanti rispetto a prima.
Serve scardinare la retorica del sacrificio, puntando su una formazione costante ma non esasperante. Anche negli stellati, che nell’immaginario collettivo godono di un’ottima reputazione, spesso i giovani si licenziano perché non riescono a reggere la cultura tossica dell’abnegazione. Il risultato? C’è sempre più turnover, anche di stampo imprenditoriale. Nel 2023, secondo il nuovo Rapporto Ristorazione 2024 di Fipe Confcommercio, sono stati aperti 6.205 ristoranti, ma 15.188 hanno abbassano per sempre le serrande.
Per invertire la tendenza, alcuni dei ristoratori al tavolo del Festival hanno introdotto corsi di management & leadership per il personale e strumenti di sostegno psicologico. E il turnover, guarda caso, in quei contesti si è ridotto, perché «il fattore umano viene prima di tutto». Se ci fosse un forte organo di rappresentanza sindacale, ha puntualizzato un partecipante, sarebbe tutto più semplice ed etico.
In altri casi, i giovani stufi delle solite dinamiche stanno sperimentando forme di lavoro alternative, ma sempre inerenti al settore: chef a domicilio, consulenti in partita Iva, ricerca gastronomica nelle aziende, influencer che vivono di sponsorizzazioni. Il mondo della cucina e del cibo non si sta adattando alle esigenze delle nuove generazioni, perciò i lavoratori tentano altre strade (cambiando vita anche dopo i trent’anni). La passione resta, ma viene incanalata in modo diverso.
Un altro modo per scardinare la cultura tossica del sacrificio è, banalmente, ridurre gli orari di lavoro. «Noi siamo in venticinque, abbiamo ridotto le ore e stiamo tutti meglio», ha detto lo chef di un ristorante della riviera ligure. Un altro partecipante al tavolo, però, ha puntualizzato un aspetto da non sottovalutare: «Chi ricopre la nostra posizione (responsabili, ndr) deve fare il sacrificio maggiore per garantire ai dipendenti un miglior equilibrio tra vita e lavoro. Ma è un sacrificio che accetto di fare con piacere». E qui “casca l’asino”, perché vantarsi di “lavorare troppo” è un atteggiamento che rischia di trasmettere messaggi sbagliati in termini di educazione delle nuove generazioni.
Lavorare più del dovuto è un campanello d’allarme che suona in un’organizzazione poco oliata ed efficiente: «Il rischio, inoltre, è che la produttività si abbassi. La nostra categoria ha l’obbligo di cambiare marcia», ha spiegato uno dei partecipanti. La riduzione degli orari di lavoro può funzionare anche in una realtà di provincia: «Anche noi abbiamo due giorni di riposo. Ho vissuto il “prima”, lavorando tutto il giorno per sei giorni su sette. I miei dipendenti non devono fare quella vita. A causa di quei ritmi volevo smettere», ha detto la co-proprietaria di un ristorante situato in un piccolo Comune, dove gli affitti sono ancora bassi.
I termini-chiave emersi dal tavolo sono stati: retorica del sacrificio; consapevolezza della necessità di un cambiamento; rappresentanza collettiva. C’è un disperato bisogno di più attenzione all’empatia e alla salute mentale, a tutti i livelli. Ai giovani non interessa più la stella, ma la presenza di un progetto solido ed etico, in grado di valorizzarli come professionisti ed esseri umani. I tempi cambiano e corrono velocemente: restare ancorati a un sistema “preistorico” è uno spreco di energia che nessuno può permettersi.