Come tutti i salmi finiscono in gloria, anche i SalTo, Saloni del Libro di Torino. E questa volta non era del tutto scontato: nuova direzione, nuova organizzazione del lavoro, nuova squadra allargata, per continuare la marcia della gioiosa macchina da guerra culturale inventata trentasei anni fa, come una scommessa visionaria, da Guido Accornero e Angelo Pezzana, consolidata sotto la sapiente guida del duo Ernesto Ferrero e Rolando Picchioni, e rilanciata dal vulcanico Nicola Lagioia arrivato al timone nel 2017, nel periodo più nero, per ragioni amministrative e per la secessione dei maggiori marchi editoriali in favore della neonata fiera milanese destinata a morire in culla dopo due sole edizioni. Sembrava impossibile fare meglio di così. Annalena Benini, la nuova direttrice, l’ha fatto.
Si chiude, dopo cinque giorni, con una proiezione record, a metà pomeriggio, di duecentoventidue mila visitatori (+ 7mila rispetto all’anno passato; ma, soprattutto, al ventinove per cento under-25, al sessantuno per cento under-40), su una superficie espositiva di centotrentasettemila metri quadrati (+ 22mila), con circa duemiladuecento eventi (che diventano duemilacinquecento con quelli del Salone Off) in gran parte sold out, e vendite al rialzo in quasi tutti gli stand. Alcuni exploit per i piccoli, com’è facile comprendere (Bao publishing, specializzato in graphic novel, + 190 per cento; Timeo + 200 per cento; Clichy e NN + 20 per cento), ma risultati di notevole soddisfazione anche per gli altri (E/O + 100 per cento; Solferino + 60 per cento; Laterza + 20 per cento; Fandango + 30 per cento; Mondadori + 22 per cento; La Nave di Teseo + 15 per cento).
Successi annunciati, e super confermati, per Alessandro Barbero, Luciano Canfora, Corrado Augias, Gianrico Carofiglio, Chiara Valerio, Licia Troisi, Alicia Giménez Bartlett, Eshkol Nevo, Emmanuel Carrère, Peter Cameron, Joël Dicker, Camilla Lackberg, un po’ a sorpresa anche per Yu Hua, che con “La città che non c’è” è andato a ruba tra i ragazzi della comunità cinese di Torino. Tante le presenze femminili in classifica, ed era prevedibile, visto che, come ha rivelato il presidente e ad di Gems Stefano Mauri, dal 2019 al 2023 ogni anno il libro più venduto è stato scritto da una donna, da Stefania Auci a Valérie Perrin, da Erin Doom a Francesca Giannone (almeno nell’editoria, non si può lamentare il patriarcato). Ed è boom, naturalmente, su tutti i social.
Ma non sono soltanto i numeri a decretare il successo. Al di là del tema di questa trentaseiesima edizione, “Vita immaginaria” (ispirato al titolo di Natalia Ginzburg), che come al solito si è rivelato un suggerimento generalmente disatteso, il Salone è stato uno stimolante luogo di confronto che ha spaziato su tutti i temi, a partire da quelli più caldi (e divisivi) dell’attualità.
Pugno di ferro in guanto di velluto, Annalena Benini ha gestito con serena fermezza le situazioni più spinose: dall’immancabile contestazione dei pro Pal alle intemperanze di qualche ospite in cerca di (maggiore) visibilità, alle presenze non troppo gradite al popolo del Salone (alla sua maggioranza non silenziosa), nonché potenziale innesco di inopportune polemiche politiche, come quella del vice premier Matteo Salvini a cui è stato steso un tappeto rosso per il firmacopie del suo libro ma non è stato possibile trovare uno spazio per presentarlo, o quella del babau Vannacci in arte “Il Generale”, neppure avvistato.
Certo poi la politica c’è stata, italiana e internazionale, e la geopolitica, e inevitabilmente le guerre (Ucraina, Medio Oriente), e le battaglie per la libertà e la democrazia, perché la cultura è anche (è soprattutto) questo, se non vuole estenuarsi sulla turris eburnea dove a qualcuno piacerebbe che se ne restasse confinata. E il salone dei libri, cioè della cultura, non poteva non essere una gigantesca cassa di risonanza.
Ma dentro ai padiglioni del Lingotto, gremiti come non mai nonostante l’incremento degli spazi, è andato in scena di tutto: visitatori comuni e professionali, scrittori esordienti e premi Nobel, ospiti sconosciuti e ospiti star (della letteratura, della saggistica, dell’editoria, dell’informazione, del cinema, della musica, in un’estensione estrema del concetto di cultura pop), giornalisti a caccia di interviste, giovani (e meno giovani) a caccia di selfie, telecamere, microfoni, studenti, scolari, bambini, genitori con le carrozzine, cani al guinzaglio, zaini molesti, urti, spintoni, pestoni, gomitate. Un caos organizzato, e in qualche momento anche disorganizzato, impossibile da organizzare, sul punto di debordare ma poi ogni volta ripreso, quasi per auto-aggregazione, per una incoercibile forza propria fatta di pazienza e di civiltà.
Perché sarebbe inspiegabile, altrimenti, come da una ressa a tratti disperante, in giornate accaldate rese più soffocanti dalla ressa, a boccheggiare tra uno stand e l’altro, costretti sovente a prolungati peripli per transitare da un lato all’altro di uno stesso stand, tra braccia che si fanno largo e mani che compulsano volumi, eventi dove per ogni visitatore che riesce a trovare posto ce ne sono dieci che restano fuori, alla fine siano usciti tutti soddisfatti: gli editori, il pubblico, i relatori, gli organizzatori (e pure Salvini).
È anche difficile da capire, in fondo, come da una simile festosa confusione possano emergere contenuti autenticamente culturali: eppure succede. Il Salone è tutto questo, un caotico happening popolare che dissoda il terreno e sparge semi, infrange le barriere, attrae a quel vecchio imprescindibile oggetto che si chiama libro. E, in un’epoca di vaniloqui e sproloqui social, fa venire la voglia di affidarsi ancora alla rassicurante meditativa consistenza della pagina scritta.