Lettori deboliIl feticismo delle merci e la curiosità arbasiniana di sapere «se la zoccola l’ha data all’ingegnere»

Le librerie sono sempre più piene, ma i sacchetti sempre più vuoti. Tanto che, al Salone di Torino, 1200 persone hanno prenotato il posto per andare a vedere (a instagrammare?) Salman Rushdie, il cui nuovo libro in tre settimane ha venduto 764 copie in tutta Italia

Matteo Secci/LaPresse

A che punto siamo col feticismo delle merci culturali? Certo, lo domando perché è iniziato il Salone del libro, i quattro giorni l’anno in cui tutti ci fingiamo lettori forti, ma lo domando anche perché Apple ha dovuto profondersi in scuse per uno spot dell’iPad.

Hari-Kuyō, il festival degli aghi rotti, è, se ho capito bene, la cerimonia in cui appunto gli aghi stortignaccoli con cui non si può più cucire vengono portati in un santuario, e la ragione per cui i giapponesi, un’enorme fetta di mercato per Apple, si sono risentiti per lo spot in cui una pressa schiacciava strumenti musicali e confezioni di vernice, metronomi e studi di anatomia, giradischi, pupazzetti, e attrezzi di quando ai videogiochi giocavamo al bar mettendo le duecento lire nella fessura, e non gratis sul nostro comodo telefono.

Li schiacciava, avevo capito io, per comprimerli in un solo attrezzo, appunto il nuovo iPad, ma la suscettibilissima platea contemporanea (così priva di problemi veri da avere il tempo e lo spazio d’offendersi per uno spot) ha invece ritenuto che quello di Apple fosse un messaggio di distruzione degli arnesi culturali, particolarmente odioso in una cultura in cui non si buttano neanche gli aghi.

Era prevedibile, forse. Sono anni che leggiamo quella puttanata del vaso i cui cocci vengono rimessi insieme con l’oro che salda la rottura impreziosendola. Sono anni che leggiamo dell’invasata giapponese che ci consiglia, prima di buttare un golfino bucato, di ringraziarlo per la felicità che ci ha portato. Sono anni che dal Giappone copiamo solo le stronzate e mai l’etica del lavoro: almeno con le stronzate avremmo dovuto acquisire familiarità.

Mentre scrivo questo articolo, a Torino Salman Rushdie sta parlando a una platea di milleduecento persone, e qui viene la parte difficile. “Coltello” è uscito il 16 aprile. Nelle prime tre settimane, ha venduto 764 copie. Quasi il doppio, dunque, delle persone che si erano prese l’incomodo di comprare il libro dove uno scrittore scriveva la cosa più pazzesca che gli fosse mai successa, quasi il doppio di loro sono andate a sentirgliela riassumere oralmente.

È perché una presentazione alla quale puoi autoscattarti e instagrammarti è un prodotto (culturale?) ormai più appetibile d’un libro? È perché uno che racconta del suo occhio alla coque viene ormai percepito non come uno scrittore ma come un qualunque influencer di casumanitudine, di quelli che è meglio poter raccontare che li hai visti che prendersi il disturbo di leggerli?

Forse è perché leggere è un’attività residuale, una brutta fatica che non è più compatibile con la nostra concentrazione da pesci rossi, nei gruppi di lettura la gente scrive «ho sentito l’audiolibro, vale lo stesso per dire che l’ho letto?», e nessuno si prende la briga di dire che no, i neuroni funzionano diversamente, nessuno vuole diminuirgli il trofeo dei libri letti, figuriamoci, vale anche se te l’ha raccontato tua moglie.

Luca Bizzarri ha tratto un libro dai suoi podcast, un’operazione antintuitiva nell’epoca in cui gli adulti vogliono le fiabe della buonanotte, il libro che qualcuno legga per loro mentre guidano, cucinano, o appunto s’addormentano, nell’epoca in cui ognuno riceve cinque offerte a settimana per fare un podcast perché insomma i libri a meno che tu non sappia disegnare ecco sono un po’ démodé. In quest’epoca qui, lui ha raccolto in un libro le cose che cinque mattine a settimana dice su Spotify, e il primo giorno un aspirante acquirente gli ha mandato un messaggio: c’è anche l’audiolibro? (Chissà a che gruppi di lettori è iscritto quel tizio; chissà perché nessuno l’ha ancora intervistato, questo distillato di spirito del tempo).

C’era quella descrizione che fece Arbasino a Baricco più di trent’anni fa, della sua generazione di scrittori che voleva fare il bestseller ma pure le cose raffinate, «una società letteraria di millepiedi», l’affannarsi e lo sbattersi tra l’esistenzialismo e Vogue, il cinema di maggiorate e Santa Romana Chiesa, e i cardinali e le contesse e i braccianti e i conti correnti, e sotto un ombrellone c’era la lettrice «per cui il grande interesse è di avere un romanzo dove potersi interessare se quella zoccola gliel’ha data o non gliel’ha data all’ingegnere o al ragioniere», e sotto all’altro il lettore che si chiedeva se quell’Heidegger «lo era o non lo era, un po’ nazi, o lo era prima o lo era dopo o lo era tanto o lo era poco», ecco, quella schizofrenia tra ombrelloni lì avrebbe dovuto insegnarci a non guardare i dati di vendita come se Rushdie e Erin Doom giocassero nello stesso campionato. Ma è una delle tante lezioni che non abbiamo appreso.

Il mio timore è che abbiamo invece appreso dal Giappone – o dalle nostre nonne analfabete per cui i libri erano oggetti preziosi – il feticismo delle merci, e allora siamo sempre lì che spieghiamo che guai a sottolineare a penna, e anche quando non li vuoi più i libri mica li butti, li dai alle biblioteche ai carcerati ai bambini poveri (io li mollo al cassonetto della carta, ma di solito non lo dico perché temo di venire espulsa dalla società civile).

E che quel feticismo delle merci non faccia però di noi gente che legge, non faccia di noi gente non dico colta ma neanche curiosa quel minimo da voler sapere se quella zoccola gliel’ha data all’ingegnere. Al massimo fa di noi gente che fa questioni di principio e che si sente offesa da uno spot, al massimo fa di noi gente che s’autoscatta alle presentazioni.

È come se avessi già ascoltato i comunicati trionfalistici in chiusura di Salone, che sarà pienissimo di gente e fanno tutti bene a felicitarsene, ma è pieno di gente perché alla gente (che siamo noi, nessuno si senta escluso) piace andare nei posti in cui puoi fare le foto e mettere il tag, mica perché le piace leggere.

Oggi, negli inserti culturali, ci sono le classifiche settimanali. Il libro che ha venduto di più la settimana scorsa ha venduto poco più di diecimila copie, il decimo libro più venduto in Italia supera di poco le tremilaecinquecento. Sono meno dei like che ha una qualunque opera editoriale invenduta d’un qualunque autore cuoricinabile sotto la foto in cui l’autore la annuncia su Instagram. Non è neanche «post pieni, librerie vuote»; più «librerie piene, sacchetti vuoti».

È andata così, che ci hanno messo in tasca degli attrezzi con le lucine in cui è in effetti stato compresso ogni tipo di espressività umana, e noi li usiamo per guardare gente che c’insegna a metterci il lucidalabbra o ci scrive cose più semplificate dell’enciclopedia dei Quindici. Siamo diventati, noi gente, tutti cinquenni. Al massimo leggiamo roba coi disegni, e infatti la classifica delle vendite di questa settimana, quella che vedremo sabato prossimo, sarà più sostanziosa: è uscito Zerocalcare, che ci affatica meno di Rushdie, e ci somiglia di più (la letteratura dev’essere una porta e non uno specchio, si diceva anni fa in una conversazione tra Toni Morrison e Fran Lebowitz: altra lezione non appresa).

Nel frattempo, noi gente facciamo ritirare uno spot alla Apple, instagrammiamo una copertina, scorriamo dieci comode slide che ci spiegano cent’anni di conflitti mediorientali, diamo un’occhiata a un tutorial che c’insegni a vivere, ringraziamo una maglietta che ci ha resi felici prima di strapparsi. Non chiedeteci anche di leggere un intero libro per sapere se quella zoccola l’ha data al ragioniere.

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