InfernetCarbonare antispeciste, Torquemada pro Pal e le epurazioni dei più puri

Viaggio tra le cinquanta polemiche concomitanti tra il 25 aprile e il Salone del Libro, laddove l’interpretazione (in analfabetese) del senso di libertà e di liberazione finisce nel moralismo del “non basta mai”

Questo non è un articolo su Zerocalcare. Questo non è neppure un articolo su Angelina Mango. Più in generale, questo non è un articolo su un conflitto che va avanti da un secolo e sul quale tutti hanno un’opinione da quando si sono accorti della sua esistenza, cioè da sette mesi.
Questo è un articolo su un meccanismo generale che ha a che vedere coi temi sensibili sui quali l’internet esige tu abbia opinioni (anche se a scuola non ci sei arrivato col programma e dopo scuola più che altro hai giocato a Candy Crush).

Ho tantissima fiducia in voi e nella vostra capacità di astrarre lo studio del meccanismo dai casi specifici di Tizio e Caia. Quindi, scriverò un articolo su Sofia Fabiani.

Sofia Fabiani, che probabilmente non avete mai sentito nominare, è una tizia che di mestiere accende la telecamera del telefono e cucina. In analfabetese: un’influencer di food. Il 25 aprile, la signora Fabiani pubblica un filmino – in analfabetese: un reel – in cui cucina una carbonara.
Poiché la data è di quelle sulle quali l’internet pretende tu abbia opinioni, la Fabiani compie il suo bravo dovere di posizionamento dicendo che quella è una carbonara antifascista (dice anche che la carbonara se vuoi puoi farla col bacon, che come posizionamento scomodo mi pare assai più eroico).

Nei commenti sotto a quel video succede una cosa stupenda. Ne copio alcuni perché non so scrivere abbastanza bene da riassumerli con l’efficacia degli originali.
«Tutto bello se non fosse che per fare questo piatto sono state uccise tante vite e non mi sembra che vada a braccetto con l’essere partigiani. La lotta che preferisco è quella intersezionale». Oddio, veramente anche per fare i partigiani si uccidevano delle vite, chissà le militanti di internet cosa pensano facessero i partigiani: il burraco? Comunque: «intersezionale» – parolina magica su cui poi torniamo – ci dice che la commentatrice è preoccupata della vita del porco. Quello divenuto pancetta.

Altro commento: «L’etica non dovrebbe andare a giorni alterni, con sgarri che non ci si permetterebbe mai con le altre lotte sociali». La lotta per il salario e quella per l’allevamento di maiali che nessuno voglia mai mangiare, così, come animali da compagnia. Si scrive «intersezionale», si legge: già avevamo poco senso delle priorità, ora proprio zero.
Ora, io capisco che abbiamo dato corda per millenni di analfabetismo alle religioni, ma l’istruzione obbligatoria non avrebbe dovuto emanciparci da puttanate quali gli angeli custodi e la vita del porco che vale quanto quella dell’umano? Cioè, se dovevamo finire antispecisti non era meglio cattolici? Erano anche meglio i costumi di scena.

Altro commento: «Ma una carbonara contestualizzata ad oggi, senza i corpi sfruttati e uccisi degli animali? Una carbonara sostenibile che parla di rispetto per tutte le vite altrui? Perché qua ci riempiamo letteralmente la bocca di sofferenze altrui inneggiando alla libertà, cambiamo musica per favore». Il punto in più per «letteralmente» è assegnato d’ufficio, ma vorrei ricordarvi che tutto questo dibattito si svolge il 25 aprile, e che se i nonni partigiani di questa gente sapessero che essa ritiene che le loro vite valessero quanto quelle delle mucche e delle galline, beh, i nonni, partigiani o no, risorgerebbero per prendere questa gente a calci in culo.

Ma mi sto facendo distrarre dall’antispecismo, mentre il meccanismo che m’interessa è un altro, e lo illustrano benissimo due commentatrici che si accapigliano. Una scrive: «Prendi atto del fatto che parlare di antifascismo, libertà e liberazione servendo uova, formaggi e carni (che sai benissimo da che corpi e abusi arrivano) è, soprattutto oggi, assolutamente una contraddizione». Un’altra risponde: «Sul fatto di vegano=antispecista=antifascista mi è partito un embolo. Ho visto più di una creator vegana sponsorizzare prodotti di aziende che più o meno direttamente sostengono Israele. Come la mettiamo?» (ho tradotto dall’analfabetese risparmiandovi le schwa e i numeretti).

Avete notato cos’è successo? Ve lo riassumo, casomai non aveste familiarità con quella frasetta di Pietro Nenni sul più puro che ti epura (vi vedo che googlate Nenni).
Una tizia di buona volontà affida un messaggio antifascista a una carbonara. Delle tizie per le quali non può bastare la buona volontà antifascista s’indignano perché la carbonara è specista. Un’altra tizia determinata a batterle in purezza rilancia: e allora come la mettiamo con chi non fa le ricette con la pancetta ma neanche boicotta Israele? Due cose sono infinite, l’universo e la quantità di buone cause cui è necessario aderire contemporaneamente per non farsi linciare dall’internet – e dell’universo non sono mica sicura.
Sabato pomeriggio, mentre Zerocalcare faceva il capopopolo con quelli con le bandiere palestinesi fuori dal Salone del libro, e all’Eurovision (un concorso canoro con cui mi rifiuto di perder tempo) c’erano cinquanta polemiche intersecate, tutte riconducibili a quella guerra che è dei cent’anni per chi la fa ed è di sette lunghi e cuoricinabili mesi per gli opinionisti di Instagram, ho aperto l’account di una delle mie sceme preferite.

È un’italiana che vive in America e punta sulla distrazione con cui spolliciamo tutti il telefono: se la sua vita chiaramente orrenda ce la descrive come stupenda, correremo a guardare i suoi video. L’italiana scrive che «adora» il trend di bloccare la gente famosa che non usa la sua (lei dice «la loro», perché come tutte le emigrate non sa né l’inglese né l’italiano) piattaforma per parlare di cose importanti. «Non so se vi rendete conto di cosa sta succedendo, non è solo adv o viaggi, c’è una guerra in corso».

Avevo notato sui social le liste di proscrizione che paiono il seguito del MeToo: stavolta il tale e il talaltro attore non vanno boicottati per aver messo una mano sul culo a qualcuna, ma per essere stati fotografati col bicchierone di Starbucks (accusato di connivenza con Israele); non sapevo nulla però di questo trend (scusate se adotto l’analfabetese) del «devi dire qualcosa, qualunque cosa».

Ha pure un nome, scopro: digitine. Che crasi è mai questa, si chiederanno i miei piccoli lettori, ignari della sospensione del senso del ridicolo praticata dai giacobini di Instagram: digital guillottine. Tizio ha «224mila follower e non ha mai chiesto il cessate il fuoco». Tizio è un cantante americano ventinovenne, gli va tagliata la testa perché non ha organizzato l’incontro di Camp David della sua generazione, come un po’ tutti ci aspettavamo da lui. 

La mia preferita riposta un tizio che dice io sono ignorantissimo e non ne so niente, «sono stato in un reality e ho detto che l’Alaska era una nazione», ma sono un influencer e l’importante è parlarne. Cosa potrà mai andar storto. (Il tizio dice che non parlarne sarebbe «distopico», parola che è ormai indicatore d’abisso d’ignoranza velleitaria quasi quanto «empatia»).

Solo che sappiamo tutti che non è «qualunque cosa», perché i termini della giusta causa da difendere sono così rigidi che neanche la ricetta della carbonara va bene. Sabato nel tardo pomeriggio, proprio mentre Zerocalcare arringa il pubblico del Salone con l’oratoria che ci si aspetta da un difensore dell’ideologia palestinese, su Twitter una sua intervista alla Stampa (in cui diceva di faticare a «parlare di quello che sta accadendo a Gaza facendo riferimento solo al 7 ottobre») viene commentata da un più puro.
«Cazzate @zerocalcare. Hai sempre faticato a parlarne prima del 7 ottobre […] Quando hai provato goffamente a dire la tua per accontentare i tuoi fan e lavarti la coscienza, sei riuscito a mettere sullo stesso piano […] Dalla comoda poltroncina dei sionisti del Salone del libro ti butti nel mischione dei parassiti che mangiano da 6 mesi sui palestinesi, visto che sarebbe controproducente per le vendite tacere» [eccetera], lo epura quello.

Ora, io sono ragionevolmente certa che Zerocalcare avrebbe fatto le sue cinquantamila copie la prima settimana anche senza l’assemblea d’istituto fuori dal Lingotto, ma ovviamente non è questo il punto. Il punto è: non basta mai.

La povera Angelina Mango giovedì ha cantato “Imagine” nella sala stampa dell’Eurovision, qualunque cosa sia. Una volta sarebbe bastato: “Imagine” stava ai cantanti come «Voglio la pace nel mondo» stava alle miss Universo. Adesso no, coloro che la sanno lunghissima hanno visto che in realtà ce l’aveva con la sua manager che gliel’aveva fatta cantare, in realtà è fuggita temendo l’insoddisfazione di chi le avrebbe rinfacciato di non aver detto «Free Palestine», in realtà la tapina non è Ghali né Arafat, in realtà in realtà in realtà.

In verità vi dico: non basta mai, quindi tanto vale mollarle tutte, le buone cause all’ordine del giorno e anche quelle che diventeranno di moda il mese prossimo. Se Angelina Mango avesse cantato «Imagine there’s only Arabs from the river to the sea», l’entusiasmo sarebbe durato quei sette minuti necessari a rinnegarla avendo trovato il video in cui mangia un panino al prosciutto, o scoperto delle magagne nella raccolta del cotone da parte dello stilista che la veste, o avendo scorso la sua cronologia fino a trovare un like messo a qualcuno nel frattempo divenuto impresentabile perché ha fatto una strage in un asilo, o ha ordinato un cappuccino da Starbucks – due pecche che valgono uguale.

Vale tutto uguale, persino i problemi che l’internet ha inventato di sana pianta. L’ultimo sono le bambine che, come hanno sempre fatto le bambine, si pasticciano la faccia con le cose della mamma (in analfabetese: fanno la skincare). Michelle Hunziker ha organizzato una festa di compleanno per la figlia di quelle che si organizzano in questo secolo: con più intrattenimento d’una serata di Sanremo.
Tra le altre cose, la voce narrante del filmino (in analfabetese: reel) che riassumeva la festa spiegava che le maschere di bellezza che erano state applicate alle bambine erano di sola acqua. Mi sono vista la paranoia di chi teme di venire linciata dall’internet perché «hai messo l’antirughe in faccia a una bambinaaaa» e ho pensato che Sartre aveva ragione, l’inferno sono gli altri; ma si era dimenticato, non essendo sull’internet, di specificare: l’inferno siamo noialtri, quando assecondiamo le smanie moralizzatrici degli altri, di sconosciuti altri, di Torquemada in sessantaquattresimo con piano dati illimitato.

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