«No». È la linea politica della sinistra radical che scende giù dai soliti ambienti – fascia d’età tra i cinquanta e i sessanta, poi ci sono i gggiovani ma è un’altra storia – si raggruma nelle chat, gonfia il «contismo» e la Cgil landiniana, lambisce e contagia il Partito democratico, si sfoga sul Fatto e con altro spessore sul Domani o sul Manifesto, naturalmente su X raccoglie tanti cuoricini.
«No». Ripetuto ossessivamente, come faceva un giovanissimo Gigi Proietti in un lontano spot all’epoca del referendum sul divorzio. «No». A Giorgia e i suoi Fratelli innanzi tutto: e qui di argomenti ce n’è a iosa. Ma è un «No» più largo, di fondo, quasi esistenziale come quelli degli adolescenti contro la scuola, i genitori, le regole. Dunque: no a dare le armi all’Ucraina, no agli Stati Uniti, no a Israele, no al premierato, no alla separazione delle carriere, no al Jobs Act. Qualcuno si spinge al no al capitalismo e tarquinianamente no alla Nato.
Un crogiuolo negativo più o meno meditato, molto più morale che politico. È il grande albero sotto cui ripararsi, pasolinianamente, quando infuria il temporale. È la coperta di Linus dell’intransigentismo azionista orgogliosamente minoritario. Il no è un “vaffa” urbano e istituzionalmente garantito, un moto impaziente e sicuramente unitario, è l’«altra Italia» come recitava la propaganda del Pci, o cantava Francesco De Gregori, l’Italia che resiste, è l’eterno ritorno del girotondismo – «vogliono imbavagliare i giudici!» – delle monetine e degli arresti domiciliari, dei giornalisti epurati, degli scrittori silenziati. Di tutto, di più.
In un certo senso è anche l’Italia dell’«o la va o la spacca» che si specchia nello slogan meloniano e che politicamente ha il suo strumento nel referendum, mitica clava originariamente brandita dalla destra (divorzio, aborto), maneggiata poi male da Enrico Berlinguer contro Bettino Craxi sulla scala mobile, stra-usata da Marco Pannella con risultati alterni, poi da un Matteo Renzi che ancora al pensiero si morde le mani.
Adesso è la sinistra non riformista (mentre si attende quella riformista, se esiste) a sperare che i referendum facciano piazza pulita delle riforme costituzionali del governo Meloni, e con varie ragioni di merito, e già che ci siamo anche della più famosa legge renziana, il Jobs Act, diamo a Renzi una legnata tardiva anche se agli italiani non cambia niente.
L’Italia del «no» si è mossa, come l’«Italia proletaria» di Giovanni Pascoli, mobilitando il popolo contro svariate leggi del Parlamento (premierato e separazione delle carriere seppure ancora lontanissime dall’approvazione), come certo è diritto delle minoranze le quali però di norma almeno prima provano a modificarle in Parlamento. Qui invece la dialettica non è più tra maggioranza e opposizioni parlamentari, ma tra Parlamento e popolo, dentro una torsione che contiene in sé preoccupanti elementi per la civiltà del confronto politico perché riduce al secco sì o no problemi complessi e di natura molto varia.
Le opposizioni dicono che questo governo di fatto impedisce il confronto, il che è abbastanza vero. Però appellarsi al popolo praticamente su tutto porta dritto dritto a una pratica, appunto, populista e distruttiva. Il Partito democratico schleiniano diventerà fatalmente il veicolo politico dell’Italia del «no» sperando così di distruggere l’avversario soffiando sul fuoco dei malcontenti di varia natura ma, con questo, alimentando una cultura populista che potrebbe sommergere tutti. L’Italia del «no» si muove, allacciate le cinture.